La circolare n. 24 del 24/6/1993, emanata dall’allora Ministero della Sanità, al punto 2 del paragrafo 13, consente la collocazione di più cassette di resti e di urne cinerarie in un unico tumulo, sia o meno presente un feretro.
Poniamo, allora, questo caso di scuola: in un loculo, magari a concessione perpetua, sono raccolte unicamente diverse cassettine ossario.
È d’obbligo indicare sulla lapide tutti i nominativi ed estremi anagrafici dei defunti cui appartennero quei resti ossei?
Di solito, questa materia, così specifica e di dettaglio, è disciplinata dal regolamento comunale di polizia mortuaria.
Molti comuni, nei loro R.P.M., non contemplano regole precise su quest’aspetto, lasciando ai concessionari delle tombe un notevole margine di pericolosa discrezionalità [1].
Ci sono, però, alcune considerazioni su cui ragionare.
Una delle cause, per le quali si può definire in stato d’abbandono una tomba, con conseguente pronuncia di decadenza sanzionatoria, procedendo, poi, alla sua riassegnazione, è proprio la non leggibilità delle iscrizioni (sono, infatti, obbligatori gli estremi anagrafici per identificare una sepoltura come nome, cognome, data di nascita e morte del de cuius), quindi dovremmo dedurre che non sia regolare una lapide o una semplice muratura della cella sepolcrale completamente anonima, poiché priva di segni identificativi.
Il DPR 285/90, tuttavia, su quest’argomento, è piuttosto lacunoso, siccome prevede esplicitamente solo per le fosse [2] dei campi d’inumazione l’obbligo di un cippo, a cura del comune, su cui applicare una targhetta con le generalità del defunto.
Le ossa possono esser conservate nell’ossario comune, in uno stato di assoluta promiscuità con altro ossame indistinto, oppure tumulate (in loculo o celletta ossario), o pure cremate, mentre è vietata la loro inumazione.
Lo spartiacque, tra queste due destinazioni ultime delle ossa, è proprio l’individualità della sepoltura, ed il concetto stesso di sepoltura PRIVATA ed individuale potrebbe, forse, comportare l’opportunità, quanto meno semantica, di identificare quegli avanzi mortali tumulati, anche all’esterno del sepolcro, per analogia con l’art. 36 comma 2 del DPR 285/90.
In effetti, ex Art. 36 comma 2 del DPR 285/90, le cassettine zincate, in cui le ossa sono raccolte, debbono obbligatoriamente recare il nome ed il cognome del de cuius cui appartennero.
In ogni caso, ai fini dell’identificazione dei cadaveri e delle loro trasformazioni di stato, sul registro cimiteriale, ex Art. 52 comma 2 lettera d del DPR 285/90, debbono esser riportate tutte le variazioni che abbiano interessato le sepolture in seguito ad esumazione, estumulazione, cremazione e trasporto di cadaveri o ceneri, in modo da poter conoscere, in qualsiasi momento, dove i cadaveri si trovino, in quale condizione (ceneri, ossa, esiti da mancata mineralizzazione) e le loro collocazioni antecedenti.
Poniamoci, ora, una nuova domanda.
Nella nostra legislazione vigente i loculi, ossia le celle sepolcrali, in cui racchiudere i feretri, sono costruiti in modo da riuscire impermeabili a liquidi e gas cadaverici, ma l’imbocco del forno, vale a dire il lato da cui s’introduce la bara, deve sempre esser sigillato ermeticamente, in modo da garantire la tenuta stagna?
No, ancora una volta, è la circolare n. 24 del 24/6/1993 ad illuminarci: il paragrafo 13.2, infatti, è molto chiaro: “Nel caso della tumulazione di resti e ceneri non è necessaria la chiusura del tumulo con i requisiti di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 76 DPR 285/90, bensì la usuale collocazione di piastra in marmo o altro materiale resistente all’azione degli agenti atmosferici.”
La tamponatura, allora, deve semplicemente evitare eventuali intrusioni di elementi indesiderati, profanazioni oppure il trafugamento del contenuto per scopi non consentiti dalla legge.
Per ossame o ceneri l’applicazione di questo disposto è limpida ed inequivocabile, l’interpretazione della norma, invece, diviene più difficile e sfumata nell’eventualità si debbano tumulare, in un loculo o nicchia sepolcrale, resti mortali intesi, non quali semplice ossame, ma come esiti da fenomeno cadaverico di tipo trasformativo conservativo: cioè cadaveri corificati, mummificati o saponificati.
Bisogna, allora, rifarsi al paragrafo 3 della circolare del Ministero della sanità n. 10 del 31/07/98, secondo cui è d’obbligo il ripristino delle condizioni di impermeabilità del feretro (e, dunque, logicamente anche del tumulo?) quando il personale dell’ASL [3], preposto a sovrintendere alle operazioni cimiteriali, constati che le condizioni del cadavere [4], per presenza di parti molli, siano tali da prescrivere il cosiddetto “rifascio”, ossia l’avvolgimento del feretro, prima aperto, in un nuovo involucro metallico saldato, così da riuscire impermeabile ai miasmi cadaverici.
Il problema si complica notevolmente perché il discrimen, di natura meramente igienico-operativa, basato su di un’attenta e prudente valutazione “caso per caso”, sulle condizioni del resto mortale, è il sussistere, anche se residuo [5], di fenomeni percolativi.
[1] Spesso, infatti, si tratta di una scelta facoltativa e come tale contemplata dal regolamento.
[2] In ogni fossa può esser sepolto un solo cadavere, salvo madre e neonato morti in concomitanza del parto; nel nostro caso, invece, nello stesso loculo possono esser tumulate diverse cassettine zincate per ossame umano.
[3] Diverse regioni, tra cui L’Emilia Romagna, hanno semplificato le procedure, affidando il compito della vigilanza su esumazioni ed estumulazioni al personale necroforo in servizio presso il cimitero.
[4] Secondo la terminologia proposta dal DPR 254/2003, trascorsi i 10 anni dall’inumazione, oppure i 20 anni dalla tumulazione, sarebbe più corretto parlare di questi cadaveri incorrotti, o parzialmente tali, in termini di semplici “resti mortali”.
[5] Spesso i resti mortali, anche se disidratati, come succede per le mummie, continuano, per lungo tempo, a rilasciare odori acri e potenti, assolutamente antigienici.