Nel monumento funebre compiutamente (neo?)-gotico viene risolto, con una sintassi unitaria, il problema dell’integrazione – in unità – delle pareti e delle volte.
Il paradigma architettonico nel sacello sepolcrale ispirato a questa filosofia appunto, è individuabile abbastanza semplicemente e consiste nell’accentuazione espressiva degli ordini verticali e delle costolonature (distinte sempre più, con l’evoluzione del gusto goticheggiante, dalle semplici ed amorfe masse murarie ulteriormente alleggerite dal triforio), che diventano gli elementi energetici della composizione, e nel progressivo svuotamento delle pareti, esse così, sottoposte ad una continua rastremazione, perderanno la funzione squisitamente portante per divenire semplici e diafane chiusure verso l’esterno.
In questi termini si può parlare di un vero “sistema” del codice architettonico gotico, che viene di fatto canonizzato e reso istituzionale da importanti testimonianze di questo stile, anche in ambito cimiteriale nella fase della sua pienezza rappresentativa della realtà, sino alla sua decadenza nell’estenuazione manieristica, segnata dal virtuosismo cesellatorio dei lapicidi, dal gusto decorativo fine a sé stesso, dalla perdita del senso dei valori spaziali e costruttivi.
Di questi tumuli pluriposto (edicole funerarie) sono irti e costellati i nostri cimiteri urbani, specie quelli a maggior rilevanza storico-artistica, detti, quindi, campisanti… monumentali. Ebbene, non tanto per il dolente visitatore occasionale, ma quanto per chi lavori in cimitero, tali sepolcri, spesso molto risalenti nel tempo (= concessioni perpetue) rappresentano una…maledizione vera e propria, poiché con certezza quasi assoluta essi non sono…a norma con l’art. 76 comma 2 D.P.R. n. 285/1990.
Esplicando meglio la questione, declinata in linguaggio necroforico, siamo in presenza di edifici ad uno funerario (corpo di fabbrica in cui sono ricavati loculi, sostanzialmente) che non garantiscono il diretto accesso ad ogni singolo feretro da tumularvi o estumulare.
Si tratta dell’oscuro “vestibolo”, termine aulico (desueto?), che altro non è soprattutto per gli operatori cimiteriali, se non quell’area di manovra vitale per movimentare correttamente ed in sicurezza una bara, ed inserirla o estrarla dalla rispettiva cella.
L’uso di detti sepolcri, se da un lato è da incentivare (sono pur sempre sepolture di pregio…altrimenti potenzialmente abbandonate!) riesce, però, sovente più problematico del previsto, a causa di anditi davvero troppo angusti e spigolosi.
Spesso, mi confidano i colleghi cimiteriali, si ricorre a mosse da contorsionisti. Tra i movimenti combinati da eseguire in perfetto sincrono (si richiedono, nel co-ordinarsi performances olimpioniche) vi è il famigerato “ponte”.
L’immagine lascia sì la fantasia libera di sbizzarrirsi, ma non più di tanto: è, infatti, facilmente intuibile l’accrocchio che viene a crearsi: pericolosissimo.
Intervenire in almeno quattro necrofori è pressoché impossibile, così qualche nerboruto e volenteroso tumulatore presta gentilmente la propria schiena (!) come piano d’appoggio su cui far ruotare prima e scivolare poi la cassa, nella sincera speranza che altri due (se va bene!) affossatori reggano in equilibro, anche se precario) il feretro.
In caso contrario ci sarebbe uno schiacciamento quasi certo, con conseguenze imprevedibili.
Se poi quest’ultimo deve esser calato lungo una botola da cui si accede a stanza sotterranea lo scenario non è certo più roseo, anzi.
A parte il brutto effetto della cassa posta quasi in verticale, con all’interno il cadavere che sbatte allegramente, ed i sinistri tonfi se possibile, riescono ancora più sgradevoli questi momenti di tensione, si riscontra proprio una fattispecie “patologica”, propria della medicina del lavoro.
La geometria che viene a prodursi è – difatti – agghiacciante, come mostruoso è lo sforzo fisico richiesto a tutti gli operai impegnati nell’operazione, per gli improvvisi trasferimenti di carico su rachide e spalle in particolar modo, dei “ragazzi” in servizio presso i cimiteri.
Lavorano tanto, e lo stipendio (inadeguato) langue, andrebbero maggiormente apprezzati, anche sotto il versante economico.
Personalmente ho notato alle volte per le tumulazioni, ad esempio, oltre un quinto ordine in altezza, ponteggi di fortuna e trabattelli provvisori allestiti…con molta speranza nella divina provvidenza!
Quando, poi, nella peggiore delle ipotesi prefigurabili, la cassa dovesse “impuntarsi” contro un ostacolo, così da non girare su sé stessa e paralizzare tutta la manovra, anche se solo per qualche istante, si corre davvero il rischio di farsi seriamente male.
Chissà quanti infortuni, magari sottaciuti e fortunosamente evitati si saranno verificati nei nostri cimiteri, pure in un lasso di tempo piuttosto breve.
Non ci sono grandi report sull’argomento, indagare non sarebbe, poi, sbagliato, anzi. Carpire informazioni dettagliate è difficile, vige una sorta di mistico riserbo e poca voglia di affrontare apertamente il punto.
D’altronde i cimiteri sono, per antonomasia, i luoghi del silenzio sacrale. Se le macchine non possono sopperire al lavoro umano la movimentazione delle bare continua ad esser forzatamente manuale. Su ciò i pubblici poteri che vigilano sulle attività funerarie dovrebbero riflettere, seriamente.
Tutte queste spericolatezze però, in spregio a qualunque elementare protocollo di sicurezza e quindi da censurare, si rendono del tutto ultronee e superflue quando purtroppo a mancare è letteralmente il posto: loculi troppo piccoli, ad esempio, ipogei per giunta, e con cubature oggi insufficienti anche per bare di normale dimensione.
Dei “fuori misura” e delle pretese di certe imprese di estreme onoranze o famiglie meglio tacere. Così come è doveroso rigettare al mittente certi interessatissimi consigli su come ridurre con la forza casse troppo voluminose spezzando staccando cornici o spaccando i lati più sporgenti.
Si tratta di pratiche del tutto illegittime ed anzi illegali perché comprometterebbero l’integrità del cofano debitamente confezionato prima della tumulazione.
Ad un simile stato di fatto (improcedibilità ad eseguire operazioni cimiteriali) si potrebbe porre un relativo rimedio con la c.d. “procedura di deroga” ex art. 106 D.P.R. n. 285/1990, molto complicata per i suoi passaggi tecnici ed amministrativi assai strutturati (paragrafo 16 Circ. Min. N.24/1993) data la loro presunta eccezionalità rispetto a situazioni invece, diffusamente presenti nei nostri cimiteri, soprattutto nelle loro parti più antiche (quelle ottocentesche, per intenderci).
Chi per primo ha deregolamentato la procedura di deroga, semplificandola eccessivamente ha riscontrato, sovente cocenti insuccessi e (Lombardia, ad esempio) si è dovuto ancorchè in modo parziale arrendere all’evidenza, re-itroducendo, con andamento carsico la vecchia deroga dell’art. 106 cit., in una sorta di reviviscenza involontaria.
È inutile: per gli attuali standards di anti-infortunistica sul lavoro certe sepolcri non possono esser riattati al fine di deporvi feretri (su cassette ossario ed urne cinerarie si potrebbe esser più possibilisti!), perché manca letteralmente lo spazio fisico, per tentate qualunque tipologia di ristrutturazione o riattamento auto-sananti i vizi costruttivi originari dell’edificio non più in regola, con le attuali, collaudatissime norme minime dettate dal D.P.R. n. 285/1990 e dai regolamenti suoi predecessori o dalla locale legislazione sulla polizia mortuaria, sicuramente ad essi ispirata, quanto meno.
Ci sono allora tombe molto belle e di grande fascino, vecchie di oltre 200 anni, ma assolutamente disfunzionali per un loro responsabile impiego, in ottemperanza alla legge sulla sicurezza per il lavoratore, la quale come diritto costituzionale della persona (ecco l’oggetto del contendere!) deve prevalere anche sui diritti di sepolcro e le legittime aspettative dei vivi, che da essi scaturiscono.