(NdR da un’idea del Dr. Sereno Scolaro tratta dalle pagine de “I Servizi Demografici”.)
Ragioniamo, ora, su un fatto di attualità funeraria, realmente accaduto, qualche tempo addietro, di grande valore didattico.
Una persona aveva un credito derivante da un rapporto di lavoro nei confronti di un Ente (un istituto religioso), nella fattispecie con riguardo al T.F.R.
Non ottenendo risultati di apprezzabile rilievo, con altre modalità extra-giudiziali, adiva il giudice del lavoro: la controversia si concludeva con un verbale di conciliazione giudiziale con cui l’ormai ex dipendente accettava dall’Ente la proposta conciliativa diretta al soddisfacimento del credito maturato (e riconosciuto).
Tale offerta (accettata!) consisteva nella cessione del diritto esclusivo e di pieno utilizzo di una cappella gentilizia già nella titolarità dell’Ente.
Ergo, l’ex dipendente dall’Ente chiedeva la c.d. “voltura” (più correttamente, le registrazioni idonee ad attestare la sua attuale “titolarità”) dell’intestazione relativa alla cappella gentilizia.
Probabilmente, trattandosi di cappella nel cimitero nella titolarità di un Ente, potrebbe reputarsi improprio (e, senz’altro, è così) l’impiego del termine di edicola “gentilizia”, il quale non può che riferirsi se non ad una “gens”, ossia ad una famiglia, per cui si userà, di seguito, la più generica locuzione di cappella funeraria. Infatti, i sacelli gentilizi nei cimiteri concernono, di norma, una famiglia, anche se altre strutture sepolcrali possono legittimamente rientrare nella titolarità di Enti.
Generalmente (non conoscendo la circostanza del caso) i rapporti concessori nei cimiteri hanno per oggetto la concessione di un’area con l’obiettivo di creare un sepolcro a sistema di tumulazione (o, più raramente, per l’impianto di campetti ad inumazione), concessione che può essere perfezionata in favore di individui (si pensi al loculo singolo e monoposto), famiglie o Enti.
In realtà, il momento della fondazione del sepolcro, inteso nel suo corpus compositum, non si esaurisce in sé stesso, ma costituisce un intento transitorio, rispetto alla destinazione sepolcrale, cioè all’accoglimento dei defunti per cui sussista la riserva di cui, oggi, all’art. 93, comma 1 I periodo D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, cioè per la sepoltura del concessionario e delle persone appartenenti alla di lui famiglia (per le concessioni fatte ad individui o a famiglie), oppure per le persone contemplate, parallelamente, dall’atto di concessione e dall’ordinamento dell’ente (per le concessioni accordate ad Enti).
Va ricordato come, quando si parli di riserva, (ovvero della “rosa” delle persone portatrici, in vita, dello jus sepulchri, poiché il rapporto concessorio dovrebbe pre-esistere!) essa consti nella posizione giuridica di chi, trovandosi in una data condizione soggettiva, jure coniugii o jure sanguinis (omettiamo per brevitas espositiva l’istituto quasi extra ordinem delle benemerenze!), risponda positivamente ai requisiti di cui sopra; quest’ultima contemporaneamente, esclude che se ne possano avvalere soggetti terzi estranei a tale novero “scolpito” nella lex sepulchri, divisata, a sua volta, alla solenne stipula dell’atto concessorio o della convenzione da cui sovente è accompagnato, in cui le parti contraenti elencano per iscritto le rispettive obbligazioni sinallagmatiche.
Questo preambolo consente di distinguere tra la componente, per così dire, patrimoniale, del sepolcro, consistente nella proprietà del manufatto sepolcrale, costruito sull’area avuta in concessione, e che comporta l’assolvimento delle derivanti e connesse obbligazioni manutentive derivanti dal titolo nominale, principalmente, cioè dal precetto dell’art. 63 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (ma non solo, sono compresi anche gli oneri attinenti al recupero delle spese gestionali cimiteriali (si veda art. 4 comma 2 lett.) b D.M. 1 luglio 2002 emanato ex art. 5 comma 2 L. 30 marzo 2001 n. 130 per il corretto criterio di calcolo del canone concessorio), rispetto a quella “personale”: essa poi, si sostanzia nell’appartenenza alla famiglia del concessionario, oppure all’Ente (corpo morale, congrega, confraternita…).
La prefata considerazione fa subito intuire che l’Ente, dovendo onorare un debito, abbia agito surrettiziamente in modo tale da produrre, in capo al creditore, non tanto un vantaggio, quanto l’assunzione di un onere occulto, oltretutto liberamente accettato davanti al Giudice, magari nel convincimento errato e fuorviante di acquisire effettivamente un’utilità in proiezione del proprio oscuro post mortem.
Questa composizione della controversia potrebbe indurre il Comune/gestore del cimitero a ritenere pure lecito provvedere alle registrazioni che seguono all’atto giudiziale, quale esso sia, purché passato in giudicato, di soddisfacimento di crediti vantati nei confronti del precedente titolare della proprietà sul manufatto sepolcrale medesimo, non tanto sotto il profilo del credito (non rilevante dal punto di vista delle registrazioni cimiteriali), quanto sul versante di prendere atto dei riflessi sulla nuova titolarità del manufatto sepolcrale.
Non si può, però, prescindere dal constatare (amaramente!) come tale titolarità sul manufatto sepolcrale rappresentato dalla cappella funeraria in sé, implichi che il soggetto subentrante abbia acquistato gli aspetti disponibili, cioè sia venuto a trovarsi, accettandoli, nella condizione di accollarsi le obbligazioni riguardanti la stessa, ma senza che ciò possa minimamente comportare che egli consegua di default anche il diritto di sepolcro primario ( sepeliri e jus inferendi mortuum in sepulchrum), in quanto esso è collegato all’appartenenza alla famiglia o, per le concessioni fatte ad enti, all’adesione all’Ente, secondo quanto sancito dall’atto di concessione e dall’ordinamento dell’ente, in concorso tra loro.
Non solo, ma tra le obbligazioni che sorgono dalla titolarità della componente patrimoniale del manufatto sepolcrale, vi è anche quella della conservazione in essa dei feretri già tumulativi, nonché dell’accoglimento di quelli di altre persone che, iscritte all’Ente, rientrino nella riserva per cui sussista il diritto di sepoltura, e per giunta il dovere di assicurare nel tempo il c.d. diritto secondario di sepolcro: l’iter ad sepulchrum nell’antico diritto romano, secondo alcuni una sorta di servitù sui generis, ad avviso di altri giuristi, invece, un diritto personalissimo di godimento, intrasmissibile.