Lo jus sepulchri soltanto se, e nella misura in cui non sia direttamente esercitato dal de cuius, si radicherà in capo ai suoi familiari, pur trattandosi, in tale ipotesi, di una titolarità sussidiaria, ancillare.
Nello jus eligendi sepulchrum, si è comunque in presenza di un diritto della personalità, in quanto tale intrasmissibile, questo almeno è pacifico.
Un diritto, dunque, che pare conoscere due differenti orizzonti funzionali, a seconda che faccia capo al de cuius oppure ad altri soggetti: nel primo caso, esso risponde all’interesse a veder trattato il corpo inanimato in modo conforme al vissuto esistenziale e valoriale, attuando una sorta di perpetuazione del senso fondante il diritto che ciascun individuo ha sul proprio corpo animato, nel solco dell’art. 5 Cod. Civile; nel secondo caso, invece, si tratta comunque di un diritto proprio e non spettante jure successionis, ma all’interesse anzidetto si aggiunge pure quello alla pìetas verso il defunto.
L’estensione semantica che il diritto assume in quest’ultima situazione ha condotto la letteratura di settore ad inquadrarlo nella categoria dei diritti familiari, che si strutturano come diritti/doveri (Art. 1 comma 7-bis L. di conversione N. 26/2001?), il cui esercizio pieno e consapevole conosce il limite dettato dalle leggi e dai regolamenti nonché dalla volontà del de cuius stesso.
Per le ragioni che andremo ad esporre, paiono, però, più aderenti ad un’azione ordinante la disciplina e la qualificazione di tale situazione soggettiva in termini di: “diritto relazionale”.
Atteso che il diritto di sepolcro, nella sua declinazione di jus inferendi mortuum in sepulchrum, insista sul corpo inanimato, o su quanto di esso rimanga (all’esito del completo procedimento di cremazione), non ci si può non interrogare sulla diffusa considerazione dogmatica del cadavere come res extra commercium, insuscettibile di costituire oggetto di rapporti giuridici, ovvero di diritti privati patrimoniali.
Tale qualificazione vorrebbe cogliere e affermare la cifra di continuità tra il corpo animato e il corpo inanimato, il quale, conservando «l’impronta e il residuo dello stesso vivente», in nome del contenuto invalicabile del principio di dignità umana, non può parimenti essere commerciabile, né suscettibile, tanto meno di mercimonio…insomma: ”Hoc Munumentum Heredem Non Sequitur” avrebbe sintetizzato Cicerone.
In tempi più moderni, ricordiamo estensivamente l’art. 43 comma 4 del D.P.R. n.285/1990 e l’art. 19 comma 4 della L. sui trapianti di organo n. 91/1999.
Tuttavia, il ricorso alla categoria più classica del bene giuridico, anche se molto sui generis, e seppure sottratto alla disponibilità privata, conduce necessariamente la nostra analisi a situazioni eccentriche (critiche?), proprie, pleno jure, dell’appartenenza.
Tant’è che in dottrina, per superare l’imbarazzo di asserire una – ad ogni modo – proprietà svuotata dal suo contenuto essenziale, si è astrologato, volendo comunque rimanere ostinatamente legati allo schema proprietario, di pura titolarità formale, essendo il diritto, poi – a tutti gli effetti – spogliato da ogni reale facoltà che lo sostanzi.
Si è pure immaginato il ricorso alla detenzione, quale condizione di fatto che comunque legittimerebbe il soggetto a proteggere la “res”, attivandosi avanti il giudice, ad esempio, per l’azione di spoglio.
Tanto il confidare sull’espediente della titolarità formale, quanto la fattispecie più affievolita di mera detenzione non sollevano, però, l’interprete dall’inquietante risultato di tale esegesi quasi paradossale; posto che in entrambi i casi si rinvii, comunque, ad una sfera di diritti assimilabili alla proprietà, la quale, con riferimento al cadavere, si fatica sostenere quale portato di una tesi ortodossa e legalmente praticabile, ci confrontiamo evidentemente con correnti molto estreme e minoritarie del dibattito, tutto accademico, sul concetto di proprietà applicabile agli jura sepulchri, non prive di qualche sinistro fascino sepolcrale.
Giusto per perseverare (diabolicum est?) e restare fedeli alla figura giuridica dell’appartenenza, si potrebbe allora asseverare la sussistenza di un diritto di proprietà limitato da altri diritti e interessi ugualmente meritevoli di protezione da parte dell’Ordinamento, tra cui la dignità della persona, la pietas verso i defunti, la salute pubblica; posizioni giuridiche – queste – dominanti che, per definizione, escludono il commercio del cadavere ed ogni altra forma di godimento con esse incompatibile (si mediti, sul versante penalistico attorno ai delitti contro la pietà dei defunti, cui il rispettivo Codice dedica diverse disposizioni).
Sarebbero, allora, agli effetti concreti ammessi soltanto quegli atti consentiti dalla legge speciale in materia di polizia mortuaria, volti, cioè, a determinare le modalità più convenienti di destinazione del cadavere, ivi comprese le ceneri, ed a valorizzare la personalità del de cuius, nonché il sentimento di pietà di chi era ed è a lui maggiormente legato.
Ne uscirebbe, in definitiva, una sorta proprietà “menomata”, perché accompagnata da confini troppo angusti, che ne comprimerebbero in origine il contenuto del diritto, in modo tale da risultare non conformi ad esso, giacché lo priverebbero del suo «contenuto minimo essenziale».
Per analoghe motivazioni, perplessità si nutrono pure su quelle formule che, escludendo la possibilità di affermare sul cadavere un diritto di proprietà privata, poiché è escluso il possesso e il potere di disposizione da parte del soggetto, ravvisano, invece, un diritto di proprietà pubblica con sistemazione della res vincolata, però, indissolubilmente dal sentimento di pietà verso i defunti e da altri interessi di natura pubblicistica, tra cui quelli legati alla tutela della salute e dell’igiene.
Per superare, allora, il comprensibile disagio nell’affermazione di una logica pur sempre proprietaria rispetto al corpo umano inanimato, bisogna, per un istante almeno, abbandonare la rigida categoria del bene giuridico, così come delineata e modellata (o scolpita?) dall’art. 810 Cod. Civile e, muovendo dai principi costituzionali, risalire altrimenti allo status giuridico del cadavere, così da ricostruirne il profilo storico e normativo.
In sostanza, come magistralmente avverte un Autore (BUSNELLI, Per uno statuto del corpo umano inanimato, in Trattato di biodiritto, diretto da RODOTÀ e ZATTI, Il) è necessario muoversi oltre la rigida alternativa classificatoria: “o persona o cosa…e tertium non datur!” – luoghi semantici, questi, che non si addicono al cadavere – prendendo atto di questa incontrovertibile realtà: non sempre le categorie giuridiche – intese appunto come «criteri di classificazione, forme, determinazioni generali che ci consentono di pensare le cose e quindi di intenderle» riescono a governare tutta la complessità empirica ed effettuale del fenomeno funerario…almeno di quello italiano.
NdR: appunti di diritto civile tratti e rielaborati da Juscivile.it 2015, 12; a cura di Roberto Senigallia