Quasi nessuno ha commentato il fatto che con l’articolo 4 della manovra bis ferragostana si sia beffata la volontà popolare di un referendum fatto da due mesi (non 2 o 20 anni!!). Quando vennero cancellati con referendum i contributi pubblici ai partiti il Parlamento votò una legge che istituiva i rimborsi spese elettorali. Cambiava il nome, ma il contenuto restava. Il referendum? Ma chi se ne frega! Ora nemmeno il cambio di nome: la precedente norma abrogata sui servizi pubblici locali è stata quasi fotocopiata e riproposta a distanza di due mesi dalla abbrogazione referendaria (acqua per il momento esclusa …). Può piacere o no il risultato di un referendum, si può essere a favore o meno di una liberalizzazione dei SPL, ma quel che lascia interdetti è il calpestio sempre più devastante di ogni criterio legislativo, di ogni regola. Si vuole la privatizzazione dei servizi pubblici locali e a nulla vale il volere di quel POPOLO invocato a piene mani quando occorre supportare la nefandezza del giorno. Unico articolo fuori dal coro, almeno fino ad ora, il seguente, tratto da il Manifesto del 15 agosto 2011, a firma di Ugo Maffei, e che si ripropone integralmente:
Il referendum cancellato
Non volevo credere ai miei occhi quando ho visto, già depresso per una manovra che si commenta da sé, che il ministro Fitto avrebbe messo a punto una norma che che prevede la messa a gara dei servizi pubblici locali (ad eccezione dell’acqua). La norma prevede che le gestioni in house, salvo quelle con valore economico inferiore a 900.000 euro, debbano cessare entro il 31 marzo del 2012.
Un vero déjà vu. Fitto era già cofirmatario del decreto Ronchi, quello che (la maggior parte dei media sembrano averlo già dimenticato), la maggioranza assoluta del popolo italiano ha abrogato due mesi fa rispondendo sì al primo quesito referendario. La struttura del nuovo provvedimento, che non porta più la firma di Ronchi soltanto perché quest’ultimo, grazie al cielo, non è più al governo, è identica a quella della legge abrogata dal popolo sovrano. Un obbligo di messa a gara a data certa, ossia proprio quella struttura che tutti in Italia hanno capito avere un impatto devastante sul valore di quanto si vuole vendere. Non più l’acqua ma cespiti importanti del patrimonio pubblico come i trasporti locali, l’organizzazione della raccolta rifiuti e tutti i restanti servizi locali di rilevanza economica che verrebbero svenduti con un impatto drammatico sul valore del nostro patrimonio pubblico. Con l’eccezione dell’acqua, il contenuto del nuovo provvedimento è a sua volta identico a quello del Ronchi che, come ben noto, non riguardava soltanto l’acqua ma (stava scritto sull’intestazione della scheda n. 1 cui hanno risposto sì circa 27 milioni di elettori) le «Modalità di affidamento e gestione servizi pubblici locali a rilevanza economica. Abrogazione».
Insomma sta succedendo esattamente quanto temevo. L’esito referendario è stato svuotato (complici le opposizioni) del suo valore costituente e ridotto ad una mera questione tecnica legata alla sola gestione dell’acqua. La vera inversione di rotta relativa alle privatizzazioni (e liberalizzazioni camuffate) richiesta dal popolo non è stata interpretata politicamente da nessuno (ad eccezione del solo De Magistris a Napoli) L’esito di questo imperdonabile vuoto nell’interpretare il cambiamento di sensibilità politica nazionale è che impunemente il governo Berlusconi (al posto di andarsene a seguito del voto sul legittimo impedimento) impone (pare sotto dettatura dei poteri forti europei) una manovra che, con scelta politica deliberata, fa strame del patrimonio pubblico e dei beni comuni, sacrificandoli sull’altare della crescita. Ma il popolo aveva detto che i trasporti pubblici ed i rifiuti, non meno dell’acqua, devono essere governati in modo ecologico, sociale e sostenibile, nell’interesse comune e non in quello dei soliti poteri finanziari.
Il governo si fa beffe, in modo palesemente incostituzionale, della volontà sovrana chiara, espressa solo due mesi fa rispetto al primo (e più votato) quesito referendario che era contro il decreto Ronchi-Fitto. Che il referendum non fosse limitato all’acqua lo aveva abbondantemente detto anche il fronte del no in campagna elettorale!. Personalmente ho contribuito a redigerne il quesito e ho partecipato alla sua difesa di fronte alla Corte Costituzionale il 12 gennaio. La Corte era stata chiarissima nel ribadire che ogni quesito costituiva un referendum separato rispetto agli altri. La Corte aveva inoltre acclarato che Il primo quesito aveva come intento politico quello di riequilibrare il rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali che, ad avviso dei promotori, il decreto Ronchi-Fitto aveva stravolto tramite l’obbligo di messa a gara.
Quanto sta succedendo è di una gravità politica giuridica e costituzionale inaudita. A soli due mesi da un voto popolare espresso si ripropone il provvedimento abrogato negli identici termini di forma e di sostanza. Sul piano giuridico, se il governo avesse deciso ieri di privatizzare l’acqua non ci sarebbe stata alcuna differenza. L’Europa non può imporre ad un paese membro provvedimenti incostituzionali. Questo si sarebbe dovuto rispondere a Trichet e Draghi.
Il Presidente Napolitano ha adesso un dovere costituzionale di intervenire su questo punto. Il fronte di difesa dei beni comuni non può fare lo sconto a nessuno.
Da NOTIZIE RADICALI del 15-08-2011, di Andrea Billau
Sulla manovra economica e il non rispetto del referendum
Tra le misure adottate dal governo per mettere riparo alla crisi c’è un’accelerazione della privatizzazione dei servizi pubblici locali e questo va a ledere un principio fondamentale del nostro ordinamento: che eventuali nuovi leggi non possono andare contro lo spirito di un referendum abrogativo vinto.
Il cosiddetto referendum sull’acqua in realtà era sulla privatizzazione di tutti i servizi municipali e quindi oggi il voler solo rispettare la non privatizzazione dell’acqua è un violare quanto i cittadini hanno deliberato con la scheda referendaria. Certo anche durante la campagna referendaria i comitati promotori si sono ben guardati dal sottolineare la portata molto più ampia del quesito sulla “privatizzazione dell’acqua”, ma questo non toglie che non si può continuare da parte della partitocrazia a perseguire un’interpretazione da costituzione materiale delle norme che sostituisce quella letterale, unica garanzia dell’imparzialità della legge.
Il problema vero della nostra politica italica è, come denunciano da sempre i radicali, che non vi è nella partitocrazia, che abbraccia purtroppo nella sua cultura materiale anche i movimenti della società civile che le si oppongono, una cultura del diritto liberale, anzi vi è un costante suo stravolgimento che porta ad intendere i rapporti politici al meglio come rapporti di puro potere quando non di pura clientela