È stato recentemente pubblicato sulle pagine del Public Health Emergency Collection dell’Università di Cambridge uno studio di Ronald Brown, professore della School of Public Health and Health Systems della University of Waterloo, in Canada, destinato a suscitare clamore non solo nella comunità scientifica.
Nel trattato si evidenzia come gli esperti del Niaid, il National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense, in marzo, abbiano nettamente sovrastimato il tasso di mortalità dovuto al Covid.
Tale stima, realizzata sopravvalutando di oltre 10 volte l’effettiva realtà, avrebbe influenzato, di conseguenza, pesantemente, tutti i governi fin dall’inizio della gestione della pandemia, la scorsa primavera.
L’errore sarebbe stato causato dalla confusione ingeneratasi tra l’assunzione di dati attribuibili a due categorie diverse, ma simili nell’accezione: il Case Fatality Rate, che misura la mortalità tra tutti i casi diagnosticati e confermati e l’Infection Fatality Rate, che indica la mortalità tra tutti i contagiati, asintomatici e non diagnosticati compresi.
Applicando come base di calcolo il livello di letalità errato, il tasso di incidenza sulla popolazione delineava quindi un quadro sicuramente molto più allarmante, di dieci volte superiore a quanto poi effettivamente risultato.
È evidente che molti altri fattori hanno poi concorso al ridimensionamento della mortalità inizialmente prevista, non ultime le misure restrittive ed i lockdown messi in atto da moltissimi Paesi, a livello internazionale.
Risulta giocoforza molto difficile valutare la portata di un tale errore di valutazione che, seppur imbarazzante a livello scientifico, è solo un tassello dell’articolato puzzle, generato da una pandemia di tale portata e vastità.