È largamente noto come l’art. 824, comma 2 C.C. preveda che i cimiteri ed i mercati comunali (laddove l’aggettivo “comunali” è riferito ai mercati) siano assoggettati al regime dei beni demaniali.
Si tratta di un assoggettamento che amplifica la disposizione del precedente comma 1, rinviante ai beni descritti all’art. 822 C.C., ampliamento che trova significato nel fatto che le due tipologie di beni enunciate al comma 2 non possono appartenere ad altri “livelli di governo”.
Ovviamente vi possono essere eccezioni, una della quali è quella dei sacrari militari (regolati dal Codice sull’ordinamento militare) e l’altra quella dei cimiteri particolari, se ed in quanto preesistenti all’entrata in vigore del T.U.LL.SS. (cioè al 24 agosto 1934), come presa d’atto di situazioni storicamente venutesi a formare e ormai “consolidate” alla situazione sussistente dalla predetta data.
Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con sentenza 10 maggio 2023, n. 12750, che, una volta tanto, non è disponibile per gli Abbonati PREMIUM alla Sezione SENTENZE in quanto non solo particolarmente estesa (46 pagine), ma, principalmente, per non essere strettamente pertinente al tema cimiteriale, sono intervenute per approfondire il tema della “demanialità” dei beni, sotto numerosi profili, anche storici.
Si rammenta, incidentalmente, che allorquando siano chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite ciò si motiva per “fare il punto” su aspetti che singole Sezioni possano avere valutato in termini non uniformi, facendo sorgere l’esigenza di individuare una “linea interpretativa” che miri all’uniformità degli interventi interpretativi, sotto il profilo della legittimità, valutazione propria della giurisdizione della Corte di Cassazione.
Le valutazioni prese in considerazione dalle Sezioni Unite Civili ripercorrono anche l’evoluzione del concetto stesso di demanio, anche tenendo presenti situazioni del tutto diverse interessanti, in modo diverso, realtà territoriali e, tra l’altro, richiamando una precedente pronuncia della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1671/1973, che considerava: «Alla stregua della legislazione vigente in materia (principalmente legge 16 giugno 1927, n. 1766) gli usi civici possono raggrupparsi in due categorie generali: quelli che esse esercitano su beni appartenenti a privati e quelli che si esercitano su beni appartenenti alla collettività degli utenti (demani comunali, terre comuni ecc.).
Gli usi civici appartenenti alla prima categoria sono destinati, dalla detta legislazione, alla liquidazione, vale a dire alla soppressione mediante apporzionamento dei terreni stessi ed assegnazione di una porzione al Comune, quale ente esponenziale della collettività titolare dell’uso civico a titolo di “compenso per la liquidazione” (art. 5 legge 16 giugno 1927, n. 1766).”
… Gli usi civici del secondo tipo sono indicati dalla legge (art. 1) come quelli che sono esercitati su “terre possedute da comuni, frazioni di Comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie”, e cioè si configurano come diritti di una collettività (secondo l’opinione prevalente il Comune stesso è qui tale orientamento sembra doversi contrapporre la sentenza di questa Corte n. 9986 del 26 aprile 2007, intervenuta in una fattispecie nella quale la Corte d’appello aveva dichiarato estinti i diritti di uso civico sui terreni oggetto della controversia a seguito di espropriazione e realizzazione di opera pubblica.
La Corte d’appello, nella sentenza in quella sede impugnata, riconobbe essere «principio generale che i decreti di espropriazione determinino l’estinzione dei diritti di uso civico eventualmente gravanti sui beni espropriati ex l. n. 2359 del 1865, art. 52, comma 2.
Tale norma è da ritenere applicabile anche ai diritti di uso civico, come statuito dalla Corte costituzionale (sentenza 19 maggio 1995, n. 156) sulla base di vari riferimenti sparsi nella legislazione ordinaria, come ad esempio […].
Diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, i terreni di uso civico — che, al contrario di quanto ritenuto dal Commissario (…), non sono assolutamente inalienabili, ma solo soggetti a regime di alienabilità controllata — sono comunque suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità (Corte cost., 11 luglio 1989, n. 391″. Si tratta di un richiamo che non solo amplia il contesto in cui opera la materia, ma, soprattutto, da atto che la demanialità attiene a diritti esercitati su “terre possedute da comuni, frazioni di Comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie”, e cioè si configurano come diritti di una collettività, cove il comune, secondo l’opinione prevalente il Comune stesso è qui considerato quale ente esponenziale della collettività degli utenti) su beni propri.
In proposito, meriterebbe anche farsi rinvio alla sentenza n. 119 del 15 giugno 2023 della Corte Costituzionale. Se ne ricava che la previsione da cui si è partiti all’inizio (art. 824, comma 2 C.C.) trova la propria ratio proprio in questa natura del comune quale ente esponenziale della collettività locale.
Impostazione del tutto coerente con l’art. 3, comma 2 T.U.E.L., D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m. (non sottovalutando come l’immediatamente precedente art. 3, comma 1 stesso T.U.E.L. non faccia altro che richiamarsi all’art. 5 Cost.).
Ma questa pronuncia, non breve e con una ricostruzione storica abbastanza ampia, consente di ricordare come il demanio non costituisca una proprietà, nel senso attuale del termine alla luce dell’art. 832 C.C. (definizione data non solo in altro Capo, ma altresì in altro Titolo del Libro III C.C. e che prevede: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico“), in quanto il “titolare” del bene che vi rientra o ne è assoggettato non ne può “godere” e “disporre” in “modo pieno ed esclusivo”.
Si potrebbe ricorrere ad un esempio, forse più attuale: nel condominio negli edifici l’amministratore condominiale non “gode”, né “dispone” del condominio (cosa che spetta ai condomini), ma solo … amministrarlo, in esecuzione delle deliberazioni dei condomini.
Si tratta di un residuo la cui origine risale a epoche ancora caratterizzate da logiche feudali, che permane in quanto beni così classificabili o assoggettativi non sono di proprietà del soggetto (Stato, comuni, province, ecc.) quanto dalla comunità di cui questo soggetto costituisce espressione.
Per inciso, si potrebbe ricordare anche che la Costituzione, nel suo testo originario, prevedesse (art. 119, comma 4) che le regioni avessero “un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica“, disposizione che, a seguito della L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (art. 119, ultimo comma), richiama, oggi, il solo “patrimonio“.