Siamo venuti a conoscenza, a distanza di qualche giorno, dell’articolo pubblicato su Il Giornale di domenica scorsa, a firma di Vittorio Feltri, di cui riportiamo in calce il testo. Il contenuto è opportuno sia posto a conoscenza degli operatori del settore funerario.
I giudizi di Vittorio Feltri su un fatto di cronaca, riportato in base al comunicato stampa della Guardia di Finanza nella [Fun.News 2641] di ieri, e cioé il sequestro di 1203 bare cinesi taroccate, poteva essere il motivo per ragionare su quel che sta succedendo nel mercato funebre italiano. E invece l’argomento è stato affrontato con un taglio diverso.
Dall’articolo emerge una questione rilevante: e cioé che è abnorme la differenza tra il prezzo di vendita di una bara e il suo costo d’acquisto.
E ciò è vero, in quanto in Italia non si ha il coraggio di fatturare, come impresari funebri, non una bara costosa, ma il servizio che l’impresario funebre svolge in occasione di un funerale. E’ come se l’imbianchino non si facesse pagare a sufficienza per il proprio lavoro, ma volesse far pagare sovraprofumatamente i secchi di pittura che usa. Errore! E ancora: banalmente, la scarpetta da ginnastica blasonata, costa a chi la produce il 2% del prezzo di vendita. Poi si carica di costi di ricerca, sviluppo, pubblicità, commercializzazione, ma senz’altro poco giustificabii rispetto al costo del prodotto che esce dalla fabbrica.
Eppure ben pochi si scandalizzano dei ricarichi che si mettono sulla scarpetta blasonata. Idem per quanto concerne il tanto decantato made in Italy del vestiario di lusso.
Il portare il prezzo della bara al pubblico da 1200 euro a 600 euro, come sarebbe forse più corretto, non sposta però il prezzo finale di fatturazione di un servizio funebre, perché gli oneri fissi di gestione di una impresa funebre devono essere trasferiti a chi compera i beni e servizi necessari a fare un funerale.
I veri problemi, a nostro avviso, stanno:
a) nel non rendersi conto che il mercato italiano della bare sta lentamente morendo, a causa di una guerra di prezzi tra i produttori che lo ha svuotato e poi, ora, di una concorrenza estera difficilmente contrastabile. O per lo meno, se le regole esistono, occorre poi che vengano fatte osservare (e non solo quelle che fanno comodo!!). E quando ormai ci si avvicina a superare il 40% di importazione di bare dall’estero, forse è il caso di ragionare su cosa si è sbagliato.
b) che è cambiato il mercato del cofano funebre, complice la crescita della cremazione, la quale rende meno necessaria la esibizione di una bara di pregio, ma anche della grande crisi economica che livella tutto sul basso e, non ultimi, i gusti della popolazione. Mentre all’estero si punta a sviluppare la qualità del servizio nel funerale, a craere servizi di finanziamento al consumo funebre e cimiteriale, in Italia ci si fa la guerra tra imprese funebri a colpi di controllo degli obitori e di acquisti al prezzo più basso possibile. Cioé una battaglia di retroguardia, esattamente come tante altre che stanno alla base della crisi industriale di questo Paese.
c) che in tempi di crisi occorre razionalizzare sia il sistema commerciale (leggasi dimezzare almeno il numero di imprese funebri) riducendone i costi fissi, sia il sistema produttivo attraverso fusioni che portino a economie di scala, per aumentare la competitività sui mercati.
Peccato, Vittorio Feltri aveva l’argomento giusto per fare un pezzo ancor più incisivo di quel che poi ha effettuato. Ma eccolo di seguito.
Perché mandare in malora tanto bendidio (si fa sempre per dire)? Esse non sono state costruite a regola d arte, secondo criteri di legge. Immagino l obiezione del lettore, la stessa che ho fatto io: ma quali caratteristiche devono avere le bare per essere considerate idonee a ospitare un defunto? Secondo gli esperti, per essere accettabile ed entrare legittimamente nelle imprese di pompe funebri, il catafalco deve rispettare alcune norme igieniche. Quali? Ah, saperlo! Sarò ingenuo oltre che ignorante, ma pensavo che una salma, non correndo il pericolo d infettarsi, non avesse bisogno di riposare in un ambiente sterile, stante il fatto che una persona già andata al Creatore non rischia di peggiorare le proprie condizioni di salute. Sbagliavo, naturalmente. Anche un cadavere è obbligato a soggiacere a determinati regolamenti, e chi lo sotterra o lo infila in un loculo è tenuto a non violarli. Si dà il caso che i cataletti in questione non fossero a norma, cosicché sono stati requisiti e dichiarati inutilizzabili per il viaggio nell aldilà. Il nostro Paese, d altronde, se è vero che se ne infischia dei vivi, è altrettanto vero che è severissimo con chi ha tirato le cuoia. Si è scoperto che le casse da morto, di cui discettiamo appassionatamente, fossero addirittura taroccate. Si spacciano magliette, borse, jeans Trussardi, camicie Armani, abiti Prada e chemisier Versace? Con la medesima disinvoltura adesso si smerciano bare fasulle con l intento di farci sopra la cresta. E che cresta. Un sarcofago di marca quota circa 1.200 euro, vantando un legno pregiato e non so quali altri optional. Uno uscito da un modesto laboratorio cinese non costa più di 300 euro. Una bella differenza. E anche di qualità, presumo. Una cassa da morto senza un brand di rilievo non è degna di ospitare per esempio un laureato o un ricco? A Chieti la gente è molto sensibile al lignaggio del de cuius e non tollera inganni: la bara sia all altezza del trapassato e di coloro che, in buona fede, ne scelgono il giaciglio finale, sborsando somme adeguate. La speculazione non è ammessa. Guadagnare sui vivi non è elegante, ma lucrare sui morti è intollerabile. Rimane da chiedersi che senso abbia sganciare 1.000 e rotti euro per una bara di lusso, quando se ne possono spendere 300 per una spartana che svolge la stessa funzione. È un mistero mica tanto buffo. Per concludere questa mesta disamina, domandiamo a lorsignori addetti ai funerali per quale motivo dovremmo preferire le casse da morto italian style (care) a quelle cinesi (a buon mercato), visto che il deceduto giace e si dà pace mentre noi provvisoriamente vivi paghiamo qualsiasi cifra perché ci sembra brutto, nel momento del dolore, tirare sul prezzo .