E’ opportuno sapere che in caso di riduzione volumetrica dei rifiuti vegetali in assenza di idonea autorizzazione, è ravvisabile il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti previsto e punito dall’articolo 256, Dlgs 152/2006. Difatti la Corte di Cassazione, sez. penale, ha stabilito, con sentenza 1 luglio 2013, n. 28350, che anche un mero trattamento di riduzione volumetrica dei rifiuti attraverso la triturazione costituisce una operazione di smaltimento e pertanto deve essere regolarmente autorizzata. Di seguito si riporta per esteso il testo della sentenza citata:
Corte di Cassazione
Sentenza 1° luglio 2013, n. 28350La Corte Suprema di Cassazione
Terza Sezione PenaleComposta da (omissis)
ha pronunciato la seguenteSentenza
sul ricorso proposto da (omissis)
avverso la sentenza del Tribunale di Cagliari in data 29/06/2011;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere (omissis);
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale (omissis), che ha concluso per l’inammissibilità;Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 29 giugno 2011 il Tribunale di Cagliari dichiarava (omissis) colpevole del reato di cui all’articolo 256, comma 1, lett. a) del Dlgs n. 152 del 2006 per avere, quale presidente della cooperativa “Sa Striggiula”, effettuato, in assenza di autorizzazione, attività di gestione di rifiuti vegetali.
2. Ha proposto ricorso l’Imputato.
Con un primo motivo lamenta la violazione degli artt. 183 lett. m), 206, 230 e 256 del Dlgs n. 152 del 2006; richiama innanzitutto la sentenza della Corte di Cassazione n. 33866 del 2007 con cui la stessa, intervenendo In fase cautelare nel procedimento in oggetto, ha, tra le altre argomentazioni, ritenuto irrilevante la proposta questione della qualificazione del verde comunale quale infrastruttura cittadina, connettendosi l’inapplicabilità dell’articolo 230 del Dlgs cit. all’inesistenza della valutazione tecnica cui la norma è finalizzata. In altri termini, secondo detta pronuncia, occorreva verificare innanzitutto se la manutenzione del verde pubblico potesse intendersi quale manutenzione di una infrastruttura e, successivamente, se i rifiuti vegetali fossero o meno riutilizzabili, se i registri di carico e scarico fossero stati tenuti regolarmente, e se su tali rifiuti fosse stata effettuata o meno la valutazione tecnica prima di un eventuale loro trattamento. Secondo il Tribunale, nella specie, si versava in ipotesi di manutenzione di una infrastruttura con la conseguente applicazione della fictio iuris ex articolo 230 cit.; inoltre, prima di qualsiasi trattamento, i rifiuti vegetali erano sottoposti al vaglio del direttore tecnico della cooperativa e, altrettanto certamente, quest’ultima aveva regolarmente compilato i registri di carico e scarico dei rifiuti vegetali. Ciò posto, era allora necessario accertare se, una volta fatta la valutazione tecnica sui vegetali ed effettuata la scelta di quelli idonei ad essere riutilizzati e di quelli destinati ad essere smaltiti, fosse possibile per la cooperativa ridurre la dimensione dei vegetali da destinare allo smaltimento senza incorrere in violazione di legge penalmente rilevante. Sul punto il testimone (omissis), direttore tecnico della cooperativa, aveva riferito che il materiale veniva ridotto di misura perché in discarica non venivano accettati pezzi grandi. Sicché la riduzione volumetrica dei vegetali dopo la valutazione tecnica sugli stessi doveva essere considerata cosa lecita.
3. Con un secondo motivo lamenta la insussistenza dell’elemento psicologico del reato; dopo avere ricordato che la fattispecie contravvenzionale in esame è punita quanto meno a titolo colposo, precisa che la sentenza non ha espresso alcuna motivazione sul punto. Nella specie evidenzia invece la propria buona fede atteso che, anche a fronte della necessità di considerare le difficoltà interpretative connesse alla non semplice questione della manutenzione della infrastruttura, egli aveva osservato quanto la complessa normativa ambientale imponeva alla cooperativa da lui presieduta; nella specie poi l’elemento della buona fede dovrebbe essere indotto dalla implicita imposizione della pubblica amministrazione di ridurre di dimensione il vegetale da conferire allo smaltimento pena l’impossibilità di smaltimento stesso, da ciò derivando anche l’inesigibilità di un contrario comportamento.Considerato in diritto
4. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte, intervenuta nella fattispecie in esame in relazione alla fase cautelare, ha già escluso, contrariamente all’assunto del ricorrente, con la sentenza n. 33866 del 08/06/2007, Balloi, Rv. 237217, la possibilità di applicazione della disciplina ex articolo 230 del Dlgs n. 152 del 2006 riguardante i rifiuti derivanti da attività di manutenzione delle infrastrutture posto che, a prescindere dalla possibilità di ricomprendere o meno nella nozione di infrastruttura cittadina le aree comunali adibite a verde pubblico, difetta in ogni caso il presupposto, cui è condizionata la equiparabilità al luogo di produzione dei rifiuti del luogo di concentramento ove il materiale viene trasportato, che in tale ultimo luogo avvenga esclusivamente l’individuazione del materiale effettivamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza l’effettuazione di alcun trattamento. Nella specie, infatti, i rifiuti vegetali rinvenuti nell’area assoggettata a sequestro non erano, come già osservato sempre dalla Corte, in alcun modo riutilizzabili e venivano altresì sottoposti ad un trattamento di riduzione volumetrica mediante triturazione costituente già una fase di smaltimento. L’impugnata sentenza, dopo avere ritenuto di annoverare tra le infrastrutture anche le aree adibite a verde pubblico la cui manutenzione era stata data in appalto anche alla cooperativa rappresentata dal ricorrente, ha osservato essere stato accertato che nel luogo ove i vegetali venivano ammassati si procedeva, oltre che alla separazione degli stessi dai rifiuti organici, anche alla triturazione onde pervenire ad una significativa riduzione volumetrica; di qui, in applicazione del principio sopra ricordato, la corretta esclusione sia dell’applicabilità dell’articolo 230 del Dlgs n. 152 del 2006 sia, conseguentemente, della ravvisabilità di una condotta di deposito temporaneo ai sensi del previgente testo dell’articolo 183 lett. m) del Dlgs cit.
5. Il secondo motivo è inammissibile giacché, nel sollevare formalmente una pretesa mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, introduce in realtà, sul presupposto della natura complessa della normativa in oggetto, una pretesa di scusabilità di ignoranza della legge penale che si pone, in assenza di elementi indicativi della inevitabilità della stessa, in contrasto con il dettato dell’articolo 5 C.p.; va in proposito rammentato che presupposto della responsabilità penale è la conoscibilità, da parte del soggetto agente, dell’effettivo contenuto precettivo della norma dovendo considerarsi, secondo la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale (in relazione alla previsione dell’articolo 5 C.p.), quale limite alla responsabilità personale soltanto l’oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto (cd. ignoranza inevitabile, e quindi scusabile, della legge penale) anche in relazione alla veste del soggetto agente e al grado di conoscenza, per ragioni professionali, della materia in oggetto. Nella specie, a fronte di motivazione, che, nell’analizzare la condotta posta in essere dall’imputato ha, per ciò stesso, implicitamente ritenuto l’elemento soggettivo della contravvenzione, caratterizzato dalla colpa, nessun indice, tra quelli già considerati dalla giurisprudenza quali rilevanti al fini della sussistenza della buona fede, il ricorso appare avere, in realtà, indicato.
6. In definitiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. L’inammissibilità del ricorso preclude il rilievo delle cause di non punibilità, ivi compresa l’estinzione del reato per prescrizione, maturata successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, essendo detto ricorso inidoneo ad instaurare validamente il rapporto di impugnazione (cfr., per tutte, Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, De Luca).
7. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado, e della somma indicata in dispositivo, ritenuta equa, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’articolo 616 c.p.p..PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, in Roma il 21 maggio 2013
Depositato in cancelleria il 1 luglio 2013.