Rende o è una passività il patrimonio dei cimiteri?

Analisi del perché si è in una situazione di crisi
Con questo editoriale intendo affrontare e sfatare un mito di qualche anno fa, e cioè che dai cimiteri si pigliano tanti soldi. Anzi oggi i cimiteri hanno bisogno di tanti soldi!
Un mito che qualche decennio fa in parte era vero, ma solo apparentemente, visto che con le entrate comunali dalle concessioni di loculi e aree cimiteriali si è fatto di tutto: dalle piscine, alle strade, alla manutenzione di edifici, oltre che – allora – pagarsi la costruzione dei manufatti o degli ampliamenti cimiteriali.
Le notevoli risorse derivanti dallo sviluppo della tumulazione nella seconda metà del Novecento sono in parte state dirottate dai Comuni fuori del circuito cimiteriale. Inoltre, c’è un aspetto per così dire psicologico: l’inghippo nasce dal fatto che le tariffe si pagano anticipatamente per l’intero periodo concessorio. Sembrano tanti soldi, ma si riferiscono a tanti esercizi: se venissero ripartiti negli anni di concessione ci si accorgerebbe che le tariffe concessorie sono spesso insufficienti.

Un po’ di storia
In Italia la gestione economico finanziaria del cimitero era sconosciuta e aggiungo errata fino a quando la gestione era totalitariamente comunale. È negli anni Ottanta del Novecento, con le prime gestioni con aziende municipali, poi trasformatesi in società a partecipazione pubblica e successivamente con le realizzazioni dei primi project financing cimiteriali, che si cominciò ad affrontare i tanti temi economici del settore, ma senza giungere ancora a piena soluzione.
Vediamone alcuni aspetti, ancor poco noti.
Fino all’inizio del 2000 l’inumazione, l’esumazione in campo comune, la cremazione, erano gratuite per legge.
Dopo quella data divennero servizi a domanda individuale e, per il carattere di socialità, con percentuali di recupero dei costi basse, (dell’ordine del 36% medio inizialmente), non sempre aggiornate o incrementate nel tempo, come pure quelle delle restanti operazioni cimiteriali.
Nella seconda metà del Novecento il passaggio di percentuali sempre maggiori di sepoltura del feretro dal sistema ad inumazione a quello a tumulazione sembrò una manna per i Comuni, poiché determinava un consistente afflusso di risorse finanziarie, spesso in autofinanziamento, mentre prima la inumazione era gratuita.
Non si capì per tempo che il sistema tariffario della tumulazione in loculo era inadeguato per valori (troppo bassi) e per modalità di contabilizzazione (non veniva distinta nell’entrata da concessione la componente a copertura del costo di costruzione da quella connessa alla gestione).
Inoltre, lo sviluppo del project financing cimiteriale in plurimi casi si è rivelato negativo, perché acquisiva la componente redditizia della tumulazione lasciando al Comune, al termine dell’affidamento, oneri importanti per la manutenzione dei manufatti e per la gestione futura senza le corrispondenti risorse accantonate.

Alcune idee per uscire dalla crisi

E questo ci porta a ragionare sui sistemi sbagliati di contabilizzazione dei proventi cimiteriali.
L’intero introito da concessione cimiteriale veniva allocato fino a circa 30 anni fa da comuni tra le entrate al titolo IV mentre le spese di funzionamento ordinario nei bilanci erano allocate al Titolo I, cui si contrapponevano proventi bassi, generalmente per operazioni cimiteriali. Il tutto era però all’interno del calderone della contabilità finanziaria del bilancio comunale e la situazione è rimasta a marcire per anni, fin quando lo Stato non ha stretto la cinghia agli Enti Locali, abituati per molto tempo al pagamento dei deficit dei servizi da loro prodotti a piè di lista.
Da qualche anno il sistema di contabilizzazione dei proventi cimiteriali nei Comuni è più vicino a quello che sarebbe giusto, anche se migliorabile.
Difatti i principi contabili dell’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali affrontano per lo più il problema delle rilevazioni nella contabilità economica stabilendo nel principio n. 3, al punto 81:
– che le concessioni cimiteriali costituiscono proventi della gestione patrimoniale dell’ente da allocare nel conto economico, voce A 4;
– che i proventi dei beni dell’ente vanno associati al valore dei beni stessi iscritti tra le immobilizzazioni del conto del patrimonio in una logica valutativa di tipo economico;
– che le concessioni pluriennali di beni demaniali o patrimoniali devono essere riscontate per la parte di competenza economica dei successivi esercizi.
E poi con un prospetto di raccordo tra la contabilità economica e quella finanziaria.
Però, nel frattempo, sono sempre meno le risorse disponibili e le entrate da concessioni e quindi il problema resta e si amplifica.
Per molte spa pubbliche e tanti project financing cimiteriali occorre invece, meglio se con interventi normativi, un aggiustamento dei criteri utilizzati, perché spesso si usa ancora il sistema di contabilizzazione a costi, ricavi e rimanenze, senza destinare parte dei ricavi concessori ad accantonamento per costi futuri.
Segnalo infine che il patrimonio cimiteriale storico demaniale italiano, come è valorizzato attualmente nei bilanci degli EELL è, a mio avviso, sottodimensionato significativamente, per effetto delle regole di contabilità che vennero utilizzate quando si passò dall’inventario dei beni demaniali per descrizione a quello integrato dalla valorizzazione. Come noto, i cimiteri sono beni del demanio comunale.
Con la sottovalutazione dei valori in passato non sono state (e pure in futuro non saranno) accantonate quote di ammortamento di tale patrimonio in maniera soddisfacente per garantirne la manutenzione nel tempo, occorrendo così – per tale scopo – destinare risorse provenienti da altre fonti del bilancio comunale.

Effetti dello sviluppo della cremazione

Ma il vero patatrac nella gestione economica cimiteriale è derivato dallo sviluppo della cremazione.
Alla fine del Novecento, partendo dalle grandi città del Nord, scendendo poi lo stivale diciamo fino a Toscana e Marche, si rompe l’equilibrio gestionale economico cimiteriale. L’urna cinera-ria trova posto in loculi o tombe già esistenti nei cimiteri e, se proprio occorre, si prende una nicchia cineraria/ossarietto che ha prezzi dell’ordine di 1/5 o 1/6 di un loculo.
Soluzione, tra l’altro, caldeggiata dalle imprese di pompe funebri le quali, riducendosi la spesa cimiteriale per il familiare che sceglie la cremazione, hanno maggiore spazio per proporre al dolente spese aggiuntive proprie (casa funeraria, servizi di qualità, ecc.).
Viene sacrificata la “qualità del cofano” (tanto verrà cremato e non si avverte la necessità di resistenza propria per l’uso in tumulazione e per il sostentamento della terra in caso di inumazione) e in compenso si sostituiscono (in genere) pessimi servizi pubblici forniti dalle camere mortuarie degli ospedali con servizi privati di buona qualità dati da imprese funebri (nella casa funeraria).
Risultato ultimo: le risorse per la gestione cimiteriale diventano sempre più insufficienti e la crisi dei cimiteri diventa sempre più profonda.
E non è finita: nell’Ottocento e nel Novecento tutti i defunti entravano in cimitero.
Dagli anni Duemila, per parti sempre più consistenti di defunti avvengono scelte differenti: solo il 67% delle ceneri dei defunti cremati è sepolto in cimitero, il resto prende altre strade: l’affido di urna cineraria (21,33% delle cremazioni di residenti nell’anno 2021, fonte SEFIT), la dispersione ceneri dentro (1,77%) e fuori cimitero (9,68%).
Oggi quindi diventa necessario anche per l’Italia ragionare in termini di market share cimiteriale, ovvero l’attrazione che il cimitero ha rispetto ad altre soluzioni. Oltre la dispersione ceneri e l’affidamento familiare, oggi si è in presenza di fenomeni nuovi, potenzialmente pericolosi per la vita dei cimiteri:
1) il green burial (la sepoltura ecologica, anche nel bosco, oggi in crescita in altri Paesi, ma con una qualche domanda anche in Italia);
2) gli affidatari privati di urne cinerarie familiari (veri surrogati di cimiteri privati);
3) la Chiesa che, con sempre maggiore intensità e per risolvere anche propri problemi economici, cerca di sfruttare sue proprietà per accogliere urne cinerarie.
Il market share cimiteriale (MSC) medio in Italia è attorno all’89% (anni 2021 e 2022). Con valori nettamente diversi tra zone dove la cremazione è più sviluppata da quelle dove la cremazione è appena agli inizi.
Nelle regioni delle grandi aree urbane, soprattutto del Nord, MSC è su valori dell’ordine dell’80%, nel Centro Italia si può calcolare tra l’85% e il 90%, per poi alzarsi a valori del 95% o prossimi al 100% laddove non c’è ancora sviluppo della cremazione.
Ma dove si potrebbe arrivare? Dall’analisi di esperienze estere si può dire che MSC possa arrivare attorno al 50% o anche meno (cioè solo 1 morto su 2 dei residenti che viene sepolto nel cimitero locale) e in quei Paesi si stanno studiando affannosamente soluzioni capaci di invertire la tendenza.
Cosicché la redditività del patrimonio cimiteriale cala col diminuire di MSC e con il calo delle disponibilità economiche che le famiglie intendono destinare per la sepoltura.
Si può tramutare in passività quando si raggiunge e supera una determinata soglia di equilibrio. Giriamo lo sguardo e cerchiamo ora di capire il punto di vista dei nostri clienti: i familiari del defunto.
Oggi i nostri clienti hanno capito che facendo fin dall’inizio la scelta della cremazione si una garanzia di risultato: le ceneri. E non il resto mortale, prodotto quasi certo della tumulazione stagna.

Hanno economicità di spesa e, allo stesso tempo, minori difficoltà a reperire una sepoltura:
– per la possibilità di utilizzo delle tombe esistenti per accogliere plurime urne cinerarie a costi oggi contenuti;
– per l’uso dell’affido familiare di urna cineraria;
– con scelte di dispersione delle ceneri non sempre corrispondenti alla volontà del de cuius.
Come si comprende facilmente il quadro di favore per la cremazione è evidente.

Alcune proposte per uscire dalla crisi cimiteriale
Però gli introiti di una gestione cimiteriale dove la cremazione è alta (già dal 30% dei defunti in su) sono insufficienti a coprire i costi gestionali.
I deficit dei comuni, compreso quello prodotto in ambito cimiteriale, sono stati coperti per molti anni dallo Stato. La musica però è cambiata e ora occorre far pagare i servizi per quello che costano.
La cremazione è quella che costa di meno. E quindi si entra in un loop apparentemente senza fine. Che ne sarà allora del patrimonio cimiteriale esistente, visto l’impetuoso crescere della cremazione?
La risposta non è scontata, ma in buona parte questo patrimonio rischia di fare la fine delle vecchie aree industriali urbane in disuso, perché abbandonate per delocalizzazione o per cambio dei processi produttivi. E quindi è necessario porsi la domanda di come riconvertirle.

Come uscire da questo loop?
Occorre che i Comuni proprietari di cimiteri prendano coscienza dei problemi esistenti in questo settore e se ne facciano pienamente carico.
Quando era il tempo delle vacche grasse molti Comuni hanno drenato risorse proprie cimiteriali per destinarle ad altre finalità pubbliche (dalle strade, a edifici di ogni tipo). Ora il vento è girato e servono urgentemente risorse pubbliche per garantire il cambiamento e il funzionamento cimiteriale. Come?
1) Agendo su ricavi aggiuntivi certi. Partendo dalle città dove è massima l’incidenza della cremazione si deve destinare un’adeguata parte del gettito IMU alla gestione e manutenzione del cimitero, che è un servizio pubblico locale indivisibile.
Lo si può fare da subito per volontà del singolo comune, ma è meglio intervenire con una legge che moduli la percentuale di IMU a ciò destinata in funzione dell’incidenza locale della cremazione.
2) Intervenendo sul contenimento dei costi, attraverso economie di scala e quindi con una riduzione degli enti di gestione e individuando ambiti territoriali ottimali di scala provinciale o sub provinciale.
3) Cambiando scelte funzionali ed urbanistiche.
Il cimitero concepito 200 anni fa ai tempi dell’editto di Saint Cloud non è più quello che la popolazione d’oggi vuole. Ha perso la sua principale funzione di contenitore di spoglie mortali con garanzie igienico sanitarie e, per altri motivi, vede appannarsi la sua funzione di memoria storica della collettività.
Il cimitero è da trasformare in un luogo da visitare non solo per ricordare un defunto, ma an-che per altri scopi.

Va senz’altro bene ammirarne le pregevoli bellezze architettoniche, se ci sono, ma deve essere soprattutto un luogo riprogettato per accogliere le ceneri e i feretri, secondo le esigenze di una società che si è evoluta nel tempo.
Il posto del moderno cimitero, a mio avviso, non è fuori della città dei vivi come all’inizio dell’Ottocento, ma dentro la città dei vivi. E così, ove possibile, le zone di rispetto cimiteriale sono prioritariamente da trasformare in parchi urbani e nei cimiteri si devono riprogettare le aree interne (oggi sovrabbondanti per la inumazione) con ampia presenza di verde attrezzato. Insomma, un buon contributo ai nuovi concetti di foresta urbana.
Propongo, vista la pochezza architettonica fin qui registrata per questi fini di lanciare anche bandi internazionali di architettura funeraria, senza aver paura di rompere schemi precostituiti.
Lo strumento principe di questi profondi cambiamenti è l’adozione del piano cimiteriale integrato (quello che in Paesi di lingua anglosassone viene definito master plan cimiteriale), con annesse simulazioni economico finanziarie per gestione ed investimenti per un arco tempora-le minimo di 20, meglio se per 30 anni.
E non è finita: gli impianti di cremazione vanno realizzati dove servono e cioè nei grandi centri urbani e non in minuscoli comuni dell’hinterland, dove sono sempre più rifiutati dalle popolazioni spaventate da dimensioni che non sono le loro.
I piani di coordinamento regionali dei crematori, ora impantanati in tante Regioni, devono seguire regole statali di riferimento (oggi ancora mancanti) che tranquillizzino le popolazioni interessate sull’effettivo impatto ambientale di questi impianti.
E non è vera l’equazione dei tanti comitati contrari alla installazione di crematori che crematorio = inceneritore.
La verità è che, nel loro complesso, i poco meno di 100 crematori italiani (che ricordo sono nella totalità dotati di ottimi sistemi filtranti e non a scarico diretto, come avviene ancora in diversi Paesi esteri) inquinano meno di 1 inceneritore medio.
Servono poi crematori che non siano solo dei “cenerifici”, ma anche luoghi di conclusione rituale di un addio ad una persona cara, veri e propri (e non solo nel nome) templi della cremazione, dove svolgere funzioni di commiato.
Serve infine una chiara alleanza tra il settore funebre e quello cimiteriale per tendere insieme al salvataggio del sistema cimiteriale italiano.

Written by:

Daniele Fogli

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