Non ci sono scorciatoie
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 180 di quest’anno, ha chiarito definitivamente la questione della ripartizione di competenze e responsabilità, in tema di ordinamento mortuario e dei rapporti tra il regolamento nazionale e norme regionali.
Il tema, negli ultimi anni, è stato parecchio controverso: da una parte le Regioni, che, via via, hanno rivendicato un sempre maggiore spazio di manovra nell’ambito della facoltà legislativa concorrente, conferita loro dalla Costituzione, in materia di tutela della salute; dall’altra lo Stato che recentemente alle normative regionali ha opposto l’invalicabilità sic et simpliciter dei disposti del Regolamento di Polizia Mortuaria.
La Corte non ha ritenuto congrua quest’ultima prospettazione e si è espressa, chiarendo che il D.P.R. 285/90, “emanato ai sensi dell’art. 358 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), rientra, di per sé, tra le fonti normative secondarie cui, in quanto tali, è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti”.
Per una compiuta valutazione di questo esito, va evidenziato come la regione Lombardia avesse preliminarmente cassato, dalla sua legge, le parti palesemente in contrasto con il dettato costituzionale, in certo modo evidenziando che il suo stesso percorso deliberativo non fosse privo di criticità e meritevole di ulteriori approfondimenti.
Purtuttavia, questa decisione della Corte, paradossalmente, ha sgombrato il campo riguardo ad una questione fondamentale e, cioè, se le discipline dei modi e delle forme del morire, e l’articolazione dei soggetti che partecipano a questi eventi – intimamente connessi ai diritti fondamentali dell’uomo, oltre che alla coesione sociale e all’espressione stessa delle comunità, in quanto tali – debbano essere intese come solamente riservate al perimetro della tutela della salute e alla strenua difesa di quel dirigismo, che da più di un secolo ispira un impianto normativo statale, condensato nel regolamento di polizia mortuaria.
In buona parte esso contiene norme ottocentesche, emanate in un momento nel quale la dialettica fra le varie “agenzie” – Stato, Chiesa e Famiglia (nella sua accezione borghese) – definiva di per sé il piano della socializzazione primaria, assegnando ad ognuna di esse ruoli e compiti che l’ideologia del tempo considerava così naturalmente inscritti nella tradizione, nella storia e nel Progresso, da non dover essere ulteriormente esplicitati.
Solo adottando una robusta dose di sottintesi, rivendicando (anche qui) il primato dell’igiene pubblica di matrice settecentesca, l’orizzonte statale di governo della mortalità poteva essere ideologicamente ridotto ad un discorso semplicemente sanitario, tralasciando così (apparentemente) le altre questioni: religiose, etiche, civili, di sicurezza e giustizia, ecc..
Le tremende convulsioni del Novecento hanno reso evidente l’indebolimento delle tradizionali dinamiche conformative della socializzazione: da una parte l’ordinamento statale e costituzionale viene sempre più chiamato a disciplinare il piano dei diritti, e lo fa sempre in ritardo, dall’altra sono aumentati i soggetti in gioco.
Tuttavia, a ben vedere in molti ambiti, soggetti come l’Impresa, agendo secondo il nuovo mito del Mercato (inteso come ipostatizzazione dei bisogni reali, e delle trasformazioni sociali) sono stati certo in grado di manifestare crescenti appetiti e pulsioni invasivi delle attribuzioni statali, ai quali, però, solo parzialmente ha fatto seguito l’espressione di un ruolo effettivo, in termini di responsabilità sociale.
Una divaricazione di propositi e di orizzonti tra amministrazione pubblica, soggetti economici e corpi intermedi che, negli ultimi decenni, ha indotto lo Stato – anche sulla scorta di esperienze europee – a cercare di governare la complessità mediante organismi di regolazione affatto nuovi, e con una sorta di strumentazione definita di soft law.
E così i temi della morte e del morire sono divenuti espressione di un mondo parcellizzato e di difficile decifrazione, ed è con questa realtà che occorre confrontarsi. A volte si è trattato di percorsi che hanno generato esiti interessanti. Altre volte essi hanno mostrato i limiti nella comprensione generale di fenomeni, quando giudicati solamente da un unico punto di vista.
Oggi, sempre più, si acuisce, negli operatori di settore funerario, e nei cultori di queste materie, la percezione della carenza di un nuovo approccio generale ed organico da parte dello Stato.
L’assenza di un paradigma di riferimento ha portato non solo a un pulviscolare di pareri, sentenze, circolari, a volte in contraddizione fra loro, ma anche a una congerie di norme locali, variamente articolate e, generalmente, improntate dall’illusione che per determinare un nuovo assetto basti affidarsi alla sola imprenditoria funebre, fiaccando così il resto.
Forse, i decenni in cui il settore funebre e cimiteriale è stato lasciato in abbandono possono spiegare questo dato di fatto: una miriade di situazioni, norme e prassi disfunzionali ed approssimative che però, sicuramente, non meritano cittadini e famiglie.
Per giunta, in ultimo, sono in discussione proposte semplicistiche più che di “semplificazione”, che altro non farebbero se non precipitare quanti affrontano un lutto, in una sorta di desolata distopia funeraria, tutta orientata a limitare la socialità dei riti funebri e a privatizzare la memoria ed i suoi luoghi, per salvaguardare il profitto di pochi.
Né si comprende perché dovremmo fare a meno della nostra storia e di tradizioni secolari, riguardo alla pietà verso i defunti, e di ordinamenti di salvaguardia della salute pubblica e delle esigenze di giustizia, per abbracciare modelli eterogenei, per giunta da tempo controversi e discussi negli stessi Paesi in cui sono nati.
È vero, della riforma del settore si discute da decenni, ma questo non significa che la questione di una nuova disciplina funeraria debba essere considerata ‘vasto programma’ e, in quanto tale, giudicata inattuabile, oppure una questione così ‘urgente’ da approvare sconsideratamente.
Per un verso infatti, nella stessa sentenza, la Corte ha riaffermato la potestà statale anche attraverso strumenti di normazione secondaria, purché essi intervengano «in settori squisita-mente tecnici», per integrare la normativa statale primaria (sentenza n. 286 del 2019). Essi sono leciti qualora generino «un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi affida il compito di individuare le specifiche tecniche che mal si conciliano con il contenuto di un atto legislativo e che necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 69 del 2018). Questo sembra essere un appello significativo, che responsabilizza (come si è visto nell’attuale contingenza pandemica) direttamente la struttura statale competente all’emanazione di atti idonei, anche sulla scorta delle disposizioni europee di setto-re o delle altre discipline statali.
Per un altro verso, la normativa mortuaria regionale non può esimersi dal confrontarsi da questioni che attengono alla potestà esclusiva statale, quali quelli dell’ordinamento civile, della giustizia, della concorrenza, dei livelli essenziali di prestazione da garantire sul territorio nazionale che – con il pretesto della ‘libertà di scelta’ (ma può esservi libertà senza uguale esercizio dei diritti e solidarietà?) – non possono essere piegati da esigenze particolaristiche, facendo del settore funerario, come può apparire dai propositi di taluno, una sorta di recinto ‘speciale’ e spurio, rispetto all’impianto stesso dei principi e dalle tutele costituzionali. Fa bene, quindi, il Governo ad opporsi.
Non esistono, però, scorciatoie: cessata l’illusione totemica sull’attuale regolamento di polizia mortuaria, preso atto che le legislazioni regionali sono comunque inidonee a disciplinare temi così fondamentali ed embricati in un servizio pubblico ‘universale’, quella che, invece, deve es-sere percorsa è una iniziativa governativa che, tramite strumentazioni adeguate, sappia promuovere una riforma in grado di costituire, per gli anni a venire, un saldo fondamento per l’ineludibile ammodernamento del nostro settore.
Come è stato reso noto, dal prossimo numero, la rivista avvierà il percorso di transizione al digitale. Confidiamo che con l’utilizzo dei nuovi strumenti – che consente l’integrazione con il web – potrà essere rappresentato, con maggiore immediatezza e pregnanza, il dibattito che, in molte parti del Paese, stanno suscitando i temi della morte e del morire, della loro disciplina e dei diritti, e delle tutele di cittadini, famiglie e comunità.
Editoriale di Antonio Dieni, pubblicato su I Servizi Funerari 4/2020.
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