In salsa di rivoluzione
Le prime leggi a vietare le sepolture nelle chiese furono asburgiche, emanate nel 1743 dai sovrani di Austria-Ungheria, Maria Teresa e Francesco Stefano d’Asburgo-Lorena.
In Spagna nel 1787 Carlo III vietò le sepolture nelle chiese e ordinò di costruire cimiteri all’esterno delle città. Ma in quella che poi divenne l’Italia, vi erano già norme sui cimiteri nel Granducato di Toscana e nello Stato Piemontese. Contrariamente a quanto si crede sono proprio queste le norme sui cimiteri che influenzarono il sistema cimiteriale italiano. Difatti Napoleone Bonaparte raccolse in una sorta di testo unico quanto in quegli anni si era man mano definito in altri Paesi europei, oltre che in Francia, e poi, con la dominazione sull’Italia del Nord impose queste nuove norme, condite in ‘salsa di rivoluzione’. E così l’editto di Saint-Cloud, promulgato in Francia il 12 giugno 1804, venne esteso alle province italiane il 5 settembre 1806 (si veda il testo originale a pag. 44).
Esso vietava la sepoltura nelle chiese (limitata ai soli praticanti il culto cattolico e ai benemeriti) e imponeva la costruzione di cimiteri fuori dai centri abitati, dove aveva diritto di essere sepolto chiunque, se morto in quel luogo, indipendentemente dalla religione praticata (e questa è la prima grande rivoluzione cimiteriale).
Ritroviamo in questo editto, inoltre, uno dei massimi principi della Rivoluzione francese, l”egalité’, laddove si impone che ogni sepoltura fosse singola e non più in grandi fosse comuni, e che le lapidi dovessero essere uguali.
Vennero permesse concessioni cimiteriali per realizzare sepolture private, ma per le sepolture dei ricchi si introduceva un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone al-lo spirito della rivoluzione francese, e pertanto non contenere riferimenti nobiliari. E infine erano necessari importanti lasciti agli ospedali e agli orfanotrofi per ottenere la concessione di area per realizzare sepolture private nei cimiteri (la fraternité). I cimiteri erano proprietà della collettività.
E così i ricchi, se volevano importanti monumenti sepolcrali, dovevano destinare parecchi quattrini al Welfare, oltre che per costruirli.
La Rivoluzione francese aveva poi profondamente mutato i rapporti di forza, riducendo anche l’influenza della Chiesa, tanto che ad essa venne tolta la gestione materiale delle sepolture nelle chiese e annessi camposanti (nonché dei guadagni correlati con i lasciti dei nobili, desiderosi di essere sepolti vicino a Dio e ai Santi) e così la scelta fu chiara:
– la realizzazione e gestione dei cimiteri era compito dello Stato (come anche le pratiche di stato civile per la registrazione nati e dei morti, prima compito delle parrocchie);
– il cerimoniale della morte (ovvero le esequie) restò affidato alla Chiesa.
Da qualche mese la Chiesa italiana ha pubblicato la seconda edizione del Rito delle esequie. Le principali novità riguardano una ‘più ampia e articolata proposta rituale, con nuovi testi, nuove melodie per il canto e nuovi capitoli relativi alla visita alla famiglia, alla chiusura della bara, alle preghiere nel caso della cremazione’. La Chiesa è sempre consapevole del ruolo e della importanza che nella società attuale si debbano ‘accompagnare i familiari del defunto nelle diverse tappe del lutto, perché il momento della morte possa essere vissuto come un passaggio pasquale, orientato alla Risurrezione’. Secondo la Chiesa il rito esequiale si deve sviluppare sulle tre soglie simboliche: la casa, la chiesa, il cimitero. Nella presentazione al nuovo rito delle esequie, fatta da Don Paolo Tomatis, egli si pone e pone ai lettori diversi interrogativi:
‘Non ci si è accorti che il mondo è cambiato, e soprattutto nelle zone urbane tutti questi riferimenti (le tre soglie) tendono a scomparire’. Nella società tecnica dell’ospedalizzazione dei mala-ti e della rimozione della morte, i defunti sempre più spesso non passano più per la casa, talvolta neppure per la chiesa; semmai per la cappella ospedaliera, per poi recarsi direttamente al cimitero. Non solo: nell’epoca dell’individualismo e della privatizzazione della morte, aumentano i casi di quanti decidono di voler far disperdere le proprie ceneri, o all’opposto di conservarle nelle loro case. In questo modo, anche il valore sociale del cimitero è fortemente ridimensionato. Di fronte a questi cambiamenti, davvero la riproposizione delle tappe dell’accompagnamento tradizionale costituisce la risposta migliore??
La risposta che Don Paolo Tomatis dà queste domande è la seguente: ‘la sfida della Chiesa di fronte alle mutate situazioni culturali è quella di non rassegnarsi alla perdita della morte, ma di rilanciare la risorsa rituale propria della tradizione cristiana, che permette di umanizzare la morte e di viverla in modo spirituale, attraverso l’attraversamento di alcune soglie’. E ancora ‘La consapevolezza è che non basta dire un deciso no alla dispersione delle ceneri e alla loro custodia nelle case private: bisogna motivare il perché, e soprattutto accompagnare con serietà, cura e attenzione i diversi tempi del lutto. L’importanza di incontrare i familiari, di pregare con loro nella comunità, di accompagnare i momenti delicati della chiusura della bara, della deposizione del feretro, eventualmente della consegna dell’urna, chiedono non uno sforzo in più ai ministri ordinati, ma uno sforzo in più all’intera comunità, perché sappia formare una ministerialità del lutto.’
Parole sagge e condivisibili, che mi permetto di arricchire con qualche altra considerazione: occorre avere la consapevolezza che, per quanto la cremazione sia soluzione ottimale dal punto di vista urbanistico, si debba ridimensionare la facilità di ricorso alla dispersione delle ceneri e all’affidamento, nel solo caso in cui siano consenzienti sia il de cuius che i familiari più prossimi, essendo queste scelte irreversibili (nel caso della dispersione) e di grande impatto emozionale e psicologico, sfavorenti la elaborazione del lutto (nel caso dell’affidamento familiare). E, in ambedue i casi, ci troviamo di fronte ad un vulnus alla connotazione del cimitero quale luogo di memoria duratura e perenne di una collettività.
Perché diranno i lettori di queste righe chi scrive va ad ‘esumare’ nientepopodimenoche l’Editto di Saint-Cloud (1804) e a richiamare il nuovo Rito delle Esequie cattoliche (rifacimento del 2012, ma di ben più antica data)?
Perché rammento le radici della storia cimiteriale e funebre moderna e constato quanto si sia caduti in basso laddove ora si sia costretti (per lavoro, ovviamente) a leggere il ‘Manifesto per la funeraria italiana’ (marzo 2012) della Federcofit, in vista del suo V congresso nazionale.
Al di là dell’indubbio sforzo di elaborazione di politiche per l’intero settore funerario, non si può non avvertire in tutto il ‘Manifesto’ la ricerca quasi maniacale di giustificazioni per poter sempre più allargare gli spazi di intervento dell’impresa funebre ( ), anticamente composta da falegnami, barbieri e talvolta guidatori di auto, che ora ambiscono a nuovi e riconosciuti ruoli.
Basti leggerne il seguente passo: ‘Ormai gli operatori funebri, oltre che dello svolgimento materiale e tecnico del funerale si devono occupare anche delle esequie e degli aspetti relazionali conseguenti al decesso (sviluppo delle case funebri per recuperare la veglia funebre sempre più abbandonata, sviluppo dei servizi post mortem, aiuto psicologico e sostegno ai famigliari, ecc.)?.
E proseguendo la lettura non si può non notare come i processi di liberalizzazione vengano visti validi solo per gli ?altri?. Gli impresari funebri sembra diano per scontato il mantenimento della loro privativa sulle case funerarie, mentre le attività di tutti gli altri operatori devono ruotare attorno agli interessi dell’impresa funeraria. E così, ad es.: perché non eliminare i vincoli sanitari per definire luogo di osservazione del cadavere una casa funeraria? Costa di meno e se ne possono fare di più! E i vincoli possono ben restare per le sole strutture sanitarie. E non contenti, perché non permettere la possibilità di realizzare nelle case funerarie pure un crema-torio? Tutto si facilita. E la risposta degli ‘altri’ è ovvia: perché non fare le case funerarie in cimitero? È tutto ancor più semplice!
E poi, questi preti, che condizionano con le loro esigenze le esequie, ma suvvia, dotiamoci come imprese funebri anche di figure sostitutive e pratichiamo le esequie con figure professionalmente adeguate e proprie (cerimonieri).
E già che ci siamo, questi Comuni, che alzano le tariffe per coprire i costi, che non hanno più i soldi per garantire operatori cimiteriali all’ora e dove vuole l’impresa funebre (per conto della famiglia), perché non si tolgono dai piedi? Pensa a tutto l’impresa funebre, con minori oneri sulle casse pubbliche (e maggiori, dicono gli ‘altri’, sui portafogli dei dolenti).
Anzi, nel mentre, di potrebbe fare un pensierino per snellire la burocrazia degli uffici di stato civile, che impedisce di fare il funerale quando si vuole, quasi che tutte le norme non siano va-lutate per le garanzie che contengono, ma come puro orpello da abbattere da parte di una società che tutto si può permettere, basta pagare.
Tutti dicono che mancano i controlli, e che la colpa è dei Comuni; e quindi si possono delegare ad una struttura che veda coinvolta anche la Federazione degli impresari funebri (ottimo esempio di controllore-controllato).
I funebri picconatori proprio non rammentano la loro complicità (se non peggio), con il benestare delle Regioni, nello smantellamento del sistema dei controlli presente solo fino a qualche anno or sono con la vigilanza sanitaria delle ASL. Nessuno, poi, rammenta che queste leggi regionali fotocopia hanno assegnato, alla partenza dei funerali, l’autocontrollo proprio agli impresari funebri per snellire la burocrazia, si diceva!
Così, giocando sui termini, quei controlli tanto invocati da Federcofit (ma non solo) si vorrebbero concentrare su verifiche alle nuove pseudo imprese funebri che stanno nascendo come funghi, con l’uso spesso di persone raccogliticce come portatori di bara, sui consorzi per forni-tura di servizi funebri che si fanno la guerra dei prezzi a valori assurdi e conseguentemente con l’uso di contrattualistiche del lavoro le più indecenti possibili. Controlli (sacrosanti) finalizzati però a creare barriere all’entrata in un mercato sempre meno lucrativo, mentre i restanti controlli di osservanza delle norme per trasportare un cadavere, passano in secondo o terzo piano.
Qualcuno di questi funebri picconatori avrà ben una colpa se le norme statali per regolare questo settore vennero bloccate 12 anni or sono, quando, qualcuno, il Ministro della sanità, Girolamo Sirchia, aveva fermato e poi secretato il nuovo regolamento di polizia mortuaria.
E che dire se ora gli unici controlli efficaci sono quelli, a posteriori, effettuati dalla Magistratura per contrastare il racket del caro estinto, per individuare chi vende e chi compra notizie sui defunti, smantellando le compiacenze interne agli ospedali. Una qualche riflessione la si dovrà pur fare, perché se è vero che ci sono tanti corrotti, ci devono essere anche molti corruttori disposti a pagare queste informazioni.
E a ben poco vale la denuncia che a portare la ‘funeraria’ italiana al livello pari a quello di un Paese sud-americano sono, spesso, discutibili e disinvolti personaggi che di etica si riempiono la bocca e se la scordano facilmente quando con le mani riempiono le loro tasche di denaro.
Come a ben poco vale il tentare di far capire, a chi dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti gli italiani e non solo quelli delle lobbies che più riescono ad influenzarli, che il Parlamento è il luogo dove fare le politiche alte di settore (anche funerario) e non sempre più un luogo di mediazione di interessi particolari.
Lascio poi al lettore trarre le proprie considerazioni dalle seguenti frasi, sempre tratte dal ‘Manifesto’ Federcofit: ?Il recupero di ambienti dismessi ubicati nella città per ospitare i resti mortali, ceneri, ed ossa dei defunti, in una sorta di rifondazione della pienezza di rapporti tra la vita e la morte, nella salvaguardia evidente delle tutele sanitarie, si pone con il consenso di componenti sociali e religiose sempre più vaste.
In questo contesto deve essere posto anche il tema della ‘privatizzazione dei cimiteri’: quando, cioè, la tutela sanitaria ha perso la tradizionale rilevanza, quale significato può avere l’obbligo della pubblicizzazione delle strutture cimiteriali?
La funzione laica e sociale del cimitero verrebbe piegata alla pura logica di mercato se non è immediatamente chiarito che tali luoghi, nel divenire luogo di custodia di spoglie mortali, assumono il carattere della demanialità comunale.
Desta altresì grande perplessità il fatto che si pensi che l’attuale impresario funebre (anche se formato con corsi di poche giornate) possa sostituire ruoli importanti come quello svolto in ambito religioso dall’officiante il rito esequiale o ancora il supporto psicologico o quello del councelor per ‘facilitare il lutto’.
Tutto da gettare o vi è qualche cosa di buono in questo ‘Manifesto’? Onestamente sono poche le proposte ivi contenute che si salvano, ma i motivi di riflessione non devono mancare.
Si, è vero, chi gestisce cimiteri spesso è in ritardo nel comprendere l’evoluzione della società. Talvolta, troppo spesso, si vedono gestioni della cosa pubblica da far accapponare la pelle, per menefreghismo. Sempre meno è rinvenibile la voglia, la forza, la capacità di migliorare: perché le risorse mancano, ma anche, purtroppo, perché si è persa la capacità di governo del sistema e il settore pubblico sembra una armata, sempre peggio equipaggiata, in ritirata, anzi in rotta.
Invece occorrono menti aperte, risorse morali e finanziarie, uomini capaci di far evolvere positivamente il settore pubblico e, nel nostro caso, verso qualità di sepoltura superiore a quella ordinariamente offerta, perché altrimenti la cremazione travolgerà il sistema cimiteriale italiano, visto che la famiglia del defunto non è più obbligata, per motivi igienico sanitari, al solo seppellimento in cimitero. Questa è la vera sfida per la concorrenza: quella tra modalità di sepoltura diverse, che abbisogna di inventiva, di nuove modalità gestionali, di una forte discontinuità col passato, di innovazione.
Ma attenti, è fondamentale non spacchettare il sistema cimiteriale. Occorre mantenere un unicum fra operatività, concessioni, illuminazione elettrica votiva e cremazione, per riconoscere che è un sistema complesso, da gestire in esclusiva, in cui garantire adeguate risorse economi-che per sopravvivere, e quindi realizzare la ‘concorrenza per il mercato’.
Se non si segue questa strada e si va verso lo spacchettamento di porzioni di servizio, sarà inesorabile il lento scivolamento verso il precipizio che, si badi bene, non è tanto dato dallo strapotere dell’impresa funebre, ma dalla fine del sistema cimiteriale come ci è pervenuto dai nostri Padri e che ancora regge da oltre due secoli: è quel sistema di cimitero-museo all’aperto il quale, nel bene e nel male, ci è invidiato dal mondo intero.
Nell’ambito funebre, il ruolo delle superstiti imprese pubbliche non potrà che essere di ‘concorrenza nel mercato?. E la domanda che sorge spontanea è la seguente: sarà la vendita a privati o la nascita di un nuovo modello di impresa partecipata dai lavoratori e, perché no, dall’azionariato popolare? Vincerà il mercato duro e puro o la coniugazione di mercato e socialità’. La risposta dipenderà dal fatto di trovare o meno chi avrà il coraggio di intraprendere strade nuove, ma soprattutto dall’acquisizione da parte della società italiana della consapevolezza della estrema delicatezza del settore funebre, che non può essere solo regolato dal mercato.
Concludo consapevole che è nelle fasi di forte cambiamento, quali quelle che stiamo vivendo, che si pongono le premesse per il futuro che verrà. Sta però anche in noi condizionare le scelte che si andranno a compiere. Soprattutto perché le tre parole: ‘fraternité, egalité, liberté’ non cadano nell’oblio, sotterrate da ricette, talora scellerate, che ci vengono propinate giornalmente da grandi interessi finanziari come da quelli più piccoli, ma non meno voraci, delle lobbies di settore.
Editoriale di Daniele Fogli, pubblicato su I Servizi Funerari 3/2012.
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