Un comune con una popolazione inferiore a 15.000 abitanti (per dare riferimento unicamente ai sistemi elettorali per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali), si trova affacciato su di un lago montano, non piccolo da essere chiamato “laghetto”, ma propriamente “lago”.
Il cimitero (o, se lo si voglia, uno dei cimiteri) è posto abbastanza in prossimità del lago, cosicché da alcuni punti si ha una gradevole vista sul lago.
All’incirca, nel primo decennio del secolo precedente una famiglia del luogo, che godeva di un certo status sociale da essere qualificata come “benestante” e i cui membri in alcuni atti notarili erano indicati quali di “condizione: civile”, ha chiesto – ed ottenuto – una concessione di porzione di area cimiteriale, allo scopo di costruirvi un edicola funeraria per la famiglia, realizzando un sepolcro anche di buona fattura, arredandolo, corredandolo, da elementi di un certo valore estetico (es.: statue bronzee), edicola non di amplissima capienza (6 posti feretro), ma rispondenti a quelle che, al momento della costruzione, apparivano ai concessionari le esigenze familiari.
Dopo alcuni decenni, la famiglia, per propria scelta, si trasferiva in una città, anche importante, essendo capoluogo di una regione, dove l’attività della famiglia risultava maggiormente esperibile, venendo ad allentarsi i rapporti di frequentazione con il comune in cui si trovava il cimitero de quo, edicola funeraria inclusa.
Al più vi erano occasionali visite, in particolare in occasione di tumulazioni di aventi titolo, in quanto appartenenti alla famiglia stessa o in altre, per altro rare, occasioni.
L’edicola funeraria (o, cappella gentilizia) nel tempo ha subito, come può essere nell’ordine naturale degli eventi, un certo degrado, in parte aggravato dal fatto che si avevano infiltrazioni sotterranee di acqua data la prossimità del lago, tanto che alcuni elementi, esteriori (es.: le recinzioni in ferro battuto di accesso alla cappella) si erano arrugginite, alcuni elementi (es.: la botola di accesso ai posti feretro ipogei) avevano subito modificazioni strutturali, le travature del tetto apparivano pericolanti.
I concessionari (leggi: gli attuali discendenti dal fondatore del sepolcro), ben consci del loro onere di intervenire ad assicurare il mantenimento “in buono stato di conservazione i manufatti di loro proprietà” (art. 63, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.), nonché considerando come la cappella funeraria fosse divenuta satura e valutando che i costi di un qualche intervento manutentivo, per quanto minimale, risultavano essere di una certa consistenza e non proporzionata all’”interesse” alla conservazione del sepolcro, in cui erano stati accolti feretri di persone di cui gli stessi avevano ormai scarsa, se non nulla, memoria (è noto che il lutto tende, nel tempo, a scemare), hanno prospettato di “donare” la cappella funeraria al comune, ponendo a questo ultimo la questione di come approcciarsi a questa prospettiva e di individuare le soluzioni più opportune, oltre che lecite.
Il primo passaggio per il comune ha consistito nell’individuazione dell’atto di concessione, sia per individuare il fondatore del sepolcro, la tipologia di concessione (a tempo determinato e per quale durata, oppure in perpetuo), le epoche delle tumulazioni.
Il comune disponeva di un “fascicolo” con alcuni di questi dati, ma non aveva “registrazioni” circa i nominativi (e le relative date di tumulazione), per cui il solo elemento ricognitivo era dato dalla visura sul posto delle iscrizioni presenti sul sepolcro.
Sarebbe buona cosa che i comuni disponessero, per ciascuna concessione, non solo di “registrazioni” concernenti l’atto di concessione, ma altresì di quelle delle singole tumulazioni, nonché delle “successioni” (c.d. subentri) tra le diverse persone “a valle” del fondatore del sepolcro.
Il secondo passaggio ha riguardo alle prospettive di “utilizzabilità” del sepolcro, laddove il comune addivenisse ad accettare una tale “donazione”, cosa che comporta una valutazione, almeno di larga massima, dei costi di un riadattamento, ora tenendo presenti le attuali prescrizioni tecnico-costruttive per i sepolcri a sistema di tumulazione, in quanto, eseguiti tali interventi, la cappella dovrebbe essere oggetto di assegnazione ad altri concessionari.
Stante la situazione, non solo di degrado, complessiva, vi sarebbe una notevole disproporzione tra questi costi e altre soluzioni, quali (e.g.) l’abbattimento del manufatto e la costruzione ex novo di un altro manufatto.
Probabilmente, lo stesso termine “donazione” ipotizzato dagli attuali aventi titolo va ritenuto del tutto improprio, risultando maggiormente pertinente quello di “rinuncia” alla concessione (si potrebbe anche parlare di “retrocessione” della concessione), cosa che porterebbe ad avere, in via preliminare e prima che venga formalizzata dichiarazione di rinuncia, al fatto che gli aventi titolo provvedano, a propria diligenza, cura ed onere, a dare diversa destinazione alle spoglie mortali già accolte nel sepolcro, dove – forse – il solo elemento avente un qualche grado di libertà risulta quello di rimuovere, da parte degli aventi diritto, gli elementi di arredo aventi un qualche carattere artistico o simile, se ed in quanto rimovibili.
Tra l’altro, altro elemento da non considerare dovrebbe essere, almeno a rigore, quello che gli aventi diritto, sempre prima di formalizzare una qualche dichiarazione di rinuncia, dovrebbero anche far eseguire le opere e/o interventi necessari al ripristino del manufatto, in ragione anche dei requisiti tecnico-costruttivi attualmente da considerare. Alcune ipotesi solutive.
Ipotesi n. 1. Partendo dal presupposto che non vi sia particolare contenzioso tra comune ed aventi titolo e che costoro tengano presente la propria posizione, senza accampare pretese non sostenibili, si potrebbe ipotizzare di dare (meglio se concordandone i “percorsi” con gli aventi diritto) normale applicazione alle disposizioni dell’art. 63 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., procedendo con l’emissione di atto di diffida a provvedere a far eseguire le opere nel caso necessarie per il mantenimento in buono stato di conservazione del sepolcro (e se gli aventi diritto convengano, fissandone i termini in misura anche breve), procedendo, decorso infruttuosamente il termine, ad adottare provvedimento di decadenza (atti rientranti nelle competenze di cui all’art. 107, comma 3 T.U.E.L.) dalla concessione e, come conseguenza di questo, all’estumulazione delle spoglie mortali, applicando l’art. 86, commi 2 e ss. D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., salvo non vi siano le condizioni oggettive di applicazione del comma 5 del qui citato art. 86.
Ovviamente, rimane ferma la possibilità degli aventi diritto di rimuove e ritenere gli elementi di arredo aventi in qualche carattere artistico (o, anche solo affettivo).
Ipotesi n. 2. Questa seconda ipotesi, parte dal presupposto che il manufatto sepolcrale, per la sua collocazione (incluse le infiltrazioni di acqua dal lago), non possa essere oggetto di una qualche ristrutturazione in termini di sepolture a sistema di tumulazione, oppure (ma poco cambierebbe) che i costi di un tale intervento siano talmente sproporzionati da valutarsi come del tutto irragionevoli, ipotizzando la possibilità di una trasformazione del manufatto sepolcrale da quella (originaria) dell’accoglimento di feretri ad una diversa, l’accoglimento di cassette ossario e/o urne cinerarie (citando assieme queste ipotesi anche se, alla luce delle indicazioni del Punto 13.2) della circolare del Ministero della sanità n. 24 del 24 giugno 1993, oppure, se si tratti di regione che, con proprie disposizioni, abbia definito altrimenti questi aspetti, alla luce di queste ultime indicazioni.
La citazione “assieme” dei due dimensionamenti trova giustificazione nel Punto 14.3), terzo periodo della sopracitata circolare ministeriale, anche se le prime abbiano capienza interna maggiore rispetto alle seconde, per cui una celletta ossario (ossarietto) potrebbe contenere più urne cinerarie).
Fattori di criticità che rimangono aperti. Queste due ipotesi lasciano aperte alcune questioni. La prima che si può immaginare riguarda quanto gli aventi diritto siano disposti, o propensi, ad non dare loro una diversa destinazione alle spoglie mortali, mentre la seconda è relativa allo stato in cui le spoglie mortali possano essere rinvenute, in particolare considerando come le infiltrazioni dell’acqua dal lago potrebbero avere avuto effetti di rallentamento (se non, anche, di conservazione) dei fenomeni trasformativi cadaverici, incidendo sulla probabilità di rinvenire le situazioni di cui all’art. 86, comma 5 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Se l’Ipotesi n. 1 risulti essere quella maggiormente lineare e rispondente a principi di legittimità, l’Ipotesi n. 2 potrebbe consentire, previo atto d’indirizzo adottato ai sensi dell’art. 107, comma 1 T.U.E.L., anche una certa quale “mediazione”, quale (e.g.) quella di concordare amichevolmente con gli aventi titolo la conservazione di alcune (poche, non dimentichiamo che la capienza originaria era solo per 6 feretri) tra le spoglie mortali già accoltevi, se nelle condizioni di cui al sopra citato art. 86, comma 5 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., assegnando una o più (in relazione agli accordi che possano raggiungersi) delle cellette ossario (ossarietti) per il periodo di residua durata della concessione cimiteriale, oppure, nel caso di concessione fatta in perpetuo, per la durata standard di questa tipologia di sepolture quale definita dal locale Regolamento comunale di polizia mortuaria.
Magari ponendo sul piatto anche l’acquisizione da parte del comune degli elementi di arredo aventi un qualche carattere artistico.