Premessa
Non si insisterà mai abbastanza sulle “questioni di famiglia”, intese come esigenza di definire, anzi pre-definire, in sede di redazione del Regolamento comunale di polizia mortuaria, quali siano le persone che appartengano alla famiglia del concessionario, ai fini dell’applicazione dell’art. 93, comma 1 (ma anche alcuni aspetti presenti nel comma 2) D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Quest’ultima fonte non fornisce indicazioni in proposito, né può fornirle, poiché ciò attiene, ed in via esclusiva, alla fonte regolamentale sopra citata. Vi sono stati casi in cui di fronte a disposizioni regolamentari che non andavano nella direzione voluta da persone interessate, un avvocato da queste commissionato avrebbe sostenuto che il Regolamento comunale di polizia mortuaria non era rispettoso del sopra citato art. 93, obliterando proprio il fatto che quella fonte nulla dice su quali siano le persone che appartengano alla famiglia del concessionario.
Neppure può ricercandosene una fonte nella Costituzione, dato che il suo art. 29, oltre che qualificare la famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, non definisce né la famiglia, né il matrimonio.
Per quante/i vogliano approfondire le discussioni attorno al tema della famiglia in sede costituente, si può rinviare ai resoconti della “Commissione dei 75”, 1^ Sottocommissione (Diritti e doveri dei cittadini), in particolare alle sedute del 30 ottobre e 5, 6, 7, 12 e 13 ottobre 1946, reperibili al seguente link, eventualmente leggendo anche alcuni “Documenti” (relazioni) come quelle a firma Corsanego, oppure a firma Jotti, giustappunto riferite al tema.
Il caso degli affini che, però, non sono affini
La relazione di affinità è data dall’art. 78 C.C. e consiste nel rapporto giuridico (chiamato “vincolo”) che intercorre tra un coniuge [1] e i parenti dell’altro coniuge.
Fin qui tutto è, o appare, abbastanza semplice, se non fosse nel fatto che in alcuni contesti corre l’uso di considerare tali anche persone che non possono riconoscersi come tali.
Il caso più semplice è quello di considerare affini i coniugi degli affini. Per semplificare indichiamo i due coniugi come C1 e C2 (così da rispettare la parità di genere) e, sempre per semplificare, indichiamo con SF (sorella/fratello) le sorelle/fratelli di uno dei due, cioè gli affini (es.: SF di C1 = affine di C2, o SF di C2 = affine di C1).
Spesso SF è a propria volta coniugato (con C3), ma C3 non è affine a C1 (o, C2 che sia). Inoltre, SF può avere dei figli (FG) che, in quanto discendenti, sono parenti della/del genitrice/genitore, sono affini a C1 (o, a C2 che sia).
Questa “percezione” per cui i coniugi degli affini sono “sentiti” come se fossero affini, può generare difficoltà in situazioni di lutto: si pensi al caso del decesso del coniuge di un affine, che (se gli affini siano qualificati quali “appartenenti alla famiglia del concessionario”) potrebbe non avere titolo di accoglimento in un sepolcro di famiglia o gentilizio (termini in questo contesto sinonimi) in cui ha titolo di essere accolto l’altro coniuge e i discendenti di questi.
Famiglia e gli equivoci sugli obblighi di prestare gli alimenti
In alcuni Regolamenti comunali di polizia mortuaria vi può essere una definizione di “appartenenza alla famiglia del concessionario” che fa rinvio alle disposizioni dell’art. 433 C.C., cioè alla norma che regola l’obbligo di prestare gli alimenti, criterio che, pur rispettando la libertà di esercizio della potestà regolamentare cui godono, per legge e (prima, sotto il profilo del rango normativo) per Costituzione, i comuni espone ad alcuni equivoci o, se si vuole, sorge da questi.
Infatti, tale obbligo opera secondo criteri di ordine, nel senso che non pone le persone in posizione di pari ordinazione, ma esattamente al contrario, nel senso che le persone così individuate sono gravate dall’obbligo solo se ed in quanto quelle che precedano nell’obbligo non siano oggettivamente nelle condizioni di provvedere.
Ma l’equivoco di maggiore spessore è quello che la norma de quo ha finalità proprie e non elevabili a generalità.
Le persone che hanno l’obbligo di prestare gli alimenti sono – nell’ordine – (a) il coniuge; (b) i figli, anche adottivi (e, se manchino figli, i discendenti prossimi); (c) i genitore (e, se manchino genitori, gli ascendenti prossimi; (d) gli adottanti; (e) i generi e le nuore; (f) i suoceri e le suocere – curiosamente il C.C. li indica al … singolare … tipologia di affini predestinata alla vedovanza?); (g) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza (nell’obbligo) dei germani sugli unilaterali.
Considerando questa elencazione – oltretutto tenendo sempre presente che essa è strutturata secondo un “ordine” – si coglie abbastanza agevolmente come probabilmente poco si presti a riempire di contenuti l’”appartenenza alla famiglia del concessionario” (o sia del tutto incongrua a tal fine), ai fini di cui all’art. 93, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Si può proporre l’illazione che quando questi criteri siano stati assunti in sede di Regolamento comunale di polizia mortuaria ciò possa essere imputabile ad una qualche frettolosità, od a esperienze professionali in albiti diversi rispetto a quelli propri di una adeguata gestione cimiteriale e, nel complesso, ad una non piena valutazione preventiva dei possibili effetti.
Del tutto intenzionalmente evitiamo di affrontare la questione dell'”ordine”, se non altro per il fatto che il momento del decesso delle singole categorie di persone considerate non è prevedibile a priori, il ché costituisce/costituirebbe un ulteriore fattore di inidoneità di questo rinvio ai fini dell’esercizio del diritto di sepolcro.
Conclusioni
Quanto precede consente, per quanto possa apparire scontato e banale, di richiamare l’attenzione sul fatto che, quando si ponga mano alla redazione, o ad una qualche revisione, del Regolamento comunale di polizia mortuaria, si debbano valutare quali possano essere, in prospettiva, gli “effetti” di utilizzare questa o quella formulazione, aspetto non certo facile, né immediato, ma che non può essere rimosso (magari pensando all’eleganza di questa o quella formulazione) poiché, in caso contrario, vi può essere il concreto rischio che prima o poi ci si trovi di fronte ad “effetti” imprevisti e, spesso, incongruo quanto non voluti.
[1] – Incidentalmente ricordando quanto prevede l’art. 1, comma 20 L. 20 maggio 2016, n. 76.