Sembrerebbe che vi sia stato il decesso di una persona, con relativo trasporto del feretro in altro comune, previsa debita sigillatura dello stesso una volta decorso il periodo di cui all’art. 8 d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., alla luce anche delle indicazioni della circolare del Ministero della sanità n. 24 del 24 giugno 1993, Punto 9.7), 2° e 3° periodo, trasporto che ha visto una sosta intermedia (art. 24, comma 3 d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.) in altro comune “… per il tributo di speciali onoranze …” presso una casa funeraria, sita in comune diverso da quello di “partenza” e da quello nel cui cimitero il feretro era destinato a trovare accoglimento.
Al primo comune (quello di “partenza”) perviene la notizia che (sembra) presso la casa funeraria vi sia stata l’apertura del feretro, al fine di consentire la visione del corpo ai familiari e alle persone ivi presenti per ragioni di cordoglio, magari con l’intenzione di procedere ad una nuova chiusura del feretro in modo da consentire lo svolgimento delle esequie funebri.
La vicenda (a prescindere dalla veridicità o meno di quanto riferito) pone l’occasione per un approfondimento, per quanto scarno, sulle procedure (e norme) da osservare in una tale fattispecie.
A parte il richiamo, già formulato, al Punto 9.7), 3° periodo della circolare citata, che prescrive come il responsabile del servizio di custodia del cimitero di arrivo verifichi sia l’integrità del sigillo, sia la sua corrispondenza con quello apposto sull’autorizzazione al trasporto funebre, aspetti del tutto ovvii, sembrerebbe che operando in tal modo difetti sia l’aspetto dell’integrità del sigillo, sia quello della corrispondenza tra il primo sigillo apposto (o, utilizzato) e il successivo. Certo, apparentemente questi aspetti potrebbero apparire superati (nel senso di: celati) se ed in quanto il soggetto legittimato ad eseguire il trasporto funebre sia anche quello titolare della casa funeraria, oppure il primo si presti (?) a ri-apporre, magari avendo cura (maliziosa) il proprio sigillo sovrapponendo attentamente il secondo al primo. Cura che, laddove praticata, evidenzia che si tratta di un comportamento già di per sé individuato come … non lineare. Infatti, se una tale prassi fosse ammissibile, non vi sarebbero ragioni per far sì che vi sia quest’attenzione a far si che vi sia una precisa sovrapposizione.
Dovendo dare un qualche riferimento alle norme, si può non tenere conto del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., così come della circolare inizialmente citata (che, come ben noto, non è una “norma”, ma ha natura di indicazioni amministrative che sono vincolanti se ed in quanto tra il soggetto emanante la circolare e quello cui le indicazioni stesse siano rivolte sussista un rapporto di gerarchia o di dipendenza funzionale), mentre non si può prescindere dal richiamare quanto preveda una norma presente nel Codice Penale, cioè l’art. 349, rubricato: (Violazione di sigilli), articolato su due commi, che riportiamo testualmente (tanto testualmente da lasciare immodificati sia i valori sia la valuta delle componenti pecuniarie degli aspetti sanzionatori): “[ I ] Chiunque viola i sigilli, per disposizione della legge o per ordine dell’Autorità apposti al fine di assicurare la conservazione o la identità di una cosa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire mille a diecimila. [ II ] Se il colpevole è colui che ha in custodia la cosa, la pena è della reclusione da tre a cinque anni e della multa da lire tremila a trentamila.”.
In una fattispecie quale quella considerata, appare anche evidente come vi sia l’aggravante considerata dal comma 2 dell’art. 349 C.P., dal momento che tanto il soggetto autorizzato al trasporto (ricordando come questi sia incaricato di pubblico servizio (art. 358 C.P.), rispondendo anche per tale qualificazione), quanto il soggetto titolare della casa funeraria sono inequivocabilmente qualificabili quali persone “aventi in custodia” il feretro, in relazione al tempo in cui questa attività si svolga.
Ne consegue che il soggetto che ha autorizzato il trasporto funebre, avendo la natura oggettiva di pubblico ufficiale (art. 357 C.P.), è tenuto a provvedere alla denuncia di reato, dato che l’(eventuale) omissione di questa comporta l’ulteriore fattispecie penale prevista dall’art. 361 C.P. (e qui ritorna il richiamo all’art. 24 d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., tanto più che, nel caso del suo comma 3, aveva dato comunicazione al compute intermedio in cui si è realizzata questa “sosta”, cosa che comporta l’integrazione del provvedimento autorizzatorio emesso inizialmente. O, per essere più precisi, il soggetto che ha inizialmente autorizzato il trasporto funebre, avuta notizia del fatto, non solo deve darne comunicazione ai comuni interessati (quello della “sosta” e quello di destinazione finale, ma – principalmente – al Pubblico Ministero presso il tribunale nel cui circondario è avvenuta l’infrazione (qui nel significato di “rottura”) dei sigilli apposti all’atto della chiusura del feretro, cioè dove è avvenuto il fatto, costituivo di fattispecie a rilevanza penale.
Nell’ipotesi in cui questi comportamenti emergano in sede di accoglimento del feretro nel cimitero di “arrivo”, gli obblighi di denuncia di reato spettano in capo al responsabile del servizio di custodia del cimitero di destinazione, mentre ha scarsa, se non nulla, rilevanza la questione sulle comunicazioni ai comuni interessati alle diverse fasi, e soste, del trasporto funebre.
Se la richiesta di visualizzazione del corpo della persona defunta da parte dei familiari e persone della cerchia di questa possa essere umanamente comprensibile, ciò non esenta operatori professionali e adeguatamente formati (si spera) di rappresentare come si tratti di richiesta che non può essere accolta, in quanto in contrasto con norme penali, tanto più che in difetto ne rispondono in quanto responsabili.
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