Si prenda il caso di persona coniugata (o interessata ad istituto giuridico assimilabile, negli effetti), che rimanga in stato di vedovanza, provvedendo a dichiarare la propria volontà alla cremazione del coniuge defunto, tanto più che questi, in vita, aveva in plurime occasioni manifestata una volontà in questo senso.
Contestualmente, richiede (ed ottiene) la concessione di nicchia cineraria, per collocarvi l’urna cineraria contenente le ceneri del coniuge defunto, magari considerando che il Regolamento comunale di polizia mortuaria, nonché l’atto di concessione della nicchia cineraria consentono l’accoglimento di 2 urne cinerarie (anche se non è da escludere che lo spazio fisico del “vano” sia di ampiezza sufficiente ad accoglierne altra/e), cosa che può tornare utile, quando, in momento successivo, anche il coniuge superstite venga a decedere, ottenendo così un “ricongiungimento” della coppia coniugale (o altro istituto assibilabile, negli effetti).
Di seguito, avvenuta la cremazione, l’urna cineraria, contenente le predette ceneri, viene collocata nella nicchia cineraria avuta in concessione. Sin qui nulla di particolare.
Passato un qualche tempo (non importa quanto), il coniuge superstite, sul presupposto che l’art. 3, comma 1, lett. e) L. 30 marzo 2001, n. 130 prevede che, tra le diverse e plurime modalità di conservazione delle ceneri, vi sia anche quella dell’affidamento ai familiari, valuta di mutare le proprie scelte, procedendo a “prelevare” l’urna cineraria, in ciò eventualmente facilitato dal fatto che la chiusura della nicchia cineraria possa essere più labile, che quella prevista per la tumulazione di feretro (art. 76, commi 8 o 9 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.); urna che viene portata nell’abitazione coniugale (anche se il rapporto di coniugio sia stato sciolto per morte, ex art. 149 C.C.9) o, se si voglia, abitazione familiare ed ivi collocata.
Questi “prelevamento” e “collocamento” avvengono materialmente, cioè senza porre in essere le procedure amministrative ordinarie (istanza, autorizzazione, autorizzazione al trasporto dell’urna cineraria e quant’altro occorrente, se localmente occorra altro), come comportamento di fatto.
Comportamento attuato, per così dire, “alla luce del sole”, nel senso che l’urna cineraria, collocata nell’abitazione familiare, è riposta coram populo in contesto idoneo, dignitoso, con precauzioni volte ad prevenire ogni possibilità, anche accidentale, di alterazione e con misure che vanno nella direzione opposta ad ogni possibilità di profanazione (art. 343, comma 2 T.U.LL.SS.), anzi fatta oggetto di ricordo ed onoranza, che, magari in certe occasioni (es.: anniversari), assume anche forme di ritualità familiare.
Anzi, questo comportamento (che, a questo punto, potremmo chiamare anche come “auto-affidamento“) si motiva, sotto il lato psicologico dell’attore (coniuge superstite), proprio con una volontà di assicurare alle ceneri del coniuge defunto un maggiore onore, ricordo e componenti commemorative, maggiormente estese rispetto all’originaria tumulazione in nicchia cineraria cimiteriale.
A questo punto va/andrebbe posta la domanda riassunta nel titolo, cioè se vi siano sanzioni e, in caso di risposta positiva, quali. Domanda che potrebbe essere formulata in altri termini, cioè quale sia la qualificazione di questa “azione”, di questo “comportamento” (materiale).
Tutto ciò potrebbe, ancora, essere formulato chiedendoci se si sia in presenza di reato penale, di infrazione al T.U.LL.SS., di infrazione alla L. 30 marzo 2001, n. 130 (che come noto non regola aspetti sanzionatori, se non nelle fattispecie considerate al suo art. 2, osservando che questo si colloca nelle fattispecie di reato penale), di infrazione al D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. (magari richiamando il suo art. 43, comma 3 attraverso un’assimilazione analogica (sarebbe ammissibile?) tra ossa e ceneri (rectius: una cineraria contenente ceneri), di infrazione al Regolamento comunale di polizia mortuaria, oppure se vi sia una mera irregolarità (illiceità?, indebitezza? improprietà?) amministrativa, che non dovrebbe intervenire, ma che rimarrebbe priva di sanzioni.
A questo punto, pare quanto meno opportuno precisare che non si è in presenza di questione “costruita a tavolino”, qualificabile come meramente “esercitazione di studio”, quanto di un ipotesi che sorge da situazioni concrete, oppure da questioni sollevate ai fini della conoscenza dell’ammissibilità di questo o quel comportamento, materiale.
Incidentalmente, andrebbe subito esclusa la possibilità di parlare di furto (o simili), dato che si tratta di un bene (l’urna cineraria contenente le ceneri del coniuge defunto), che viene rimosso da una collocazione e posto in altra, da parte dell’unico soggetto (il coniuge superstite) che è titolare di un qualche titolo a disporne [1].
Partiamo dagli aspetti penali: si potrebbe riconoscere in questo comportamento materiale la fattispecie dell’occultamento delle ceneri (art. 412 C.P.), in termini di nascondimento delle ceneri, oppure alle fattispecie di distruzione, soppressione, sottrazione, dispersione, considerate dall’art. 411 C.P.
In entrambi i casi, le sanzioni sono abbastanza delineate. Ci si orienta per escludere le fattispecie dell’art. 411 C.P., rivolgendoci piuttosto a considerare quelle dell’art. 412 C.P., rispetto a cui si potrebbe eventualmente valutare se sussistano, in particolare avendo riguardo al fatto che non vi sarebbe l’elemento psicologico soggettivo, difettando l’animus celandi, anzi.
È già stato richiamato l’art. 343, comma 2 T.U.LL.SS., per cui non sembra il caso di affrontare nuovamente quest’ipotesi di violazione.
Sotto il profilo del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., potrebbe richiamarsi l’art. 80, comma 2 (e, in parte, anche comma 3, oppure comma 6, anche se questo ultimo andrebbe, nel caso, escluso difettando o la volontà di utilizzare il cinerario comune o un’inerzia: “… per le quali i familiari del defunto non abbiano provveduto ad altra destinazione“).
Tuttavia, sull’art. 80, commi 2 e/o 3, occorre considerare come si tratti di disposizioni antecedenti all’art. 3, comma 1, lett. e) L. 30 marzo 2001, n. 130, che ha previsto plurime modalità di conservazione delle ceneri, oltre ad avere legittimato, a certe condizioni, anche la dispersione delle ceneri.
Ma, rispetto a queste norme, non si può evitare di richiamare l’art. 107 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., per il quale le sue violazioni sono soggette a sanzione amministrativa “… a norma degli articoli 338, 339, 340 e 358 … T.U.LL.SS., rinvio che consente di ricordare come queste norme prevedano precise sanzioni, salvo che nel caso dell’art. 358 il quale (al comma 2) dispone che i contravventori …, quando non siano applicabili pene prevedute nelle disposizioni medesime sono punti con l’ammenda da € 1.549 a € 9.296, salvo che il fatto costituisca reato (la misura è stata, da ultimo, determinata con l’art. 16 D. Lgs. 22 maggio 1999, n. 196).
Si evita di considerare l’ipotesi delle infrazioni alle norme del Regolamento comunale di polizia mortuaria (Cfr.: art. 7-bis T.U.E.L.), per il fatto di volersi ora sottrarre alla numerosità, e specialità di queste fonti normative.
Per altro, l’intera questione porta a sostenere la sussistenza delle fattispecie, di cui all’art. 412 C.P., indipendentemente dalla carenza di un animus celandi, in quanto non è questo a rilevare, men che meno a produrre effetti di legittimazione del comportamento (materiale), quanto il fatto che l’affidamento ai familiari dell’urna cineraria, non può essere “auto-determinato”, ma richiede, necessariamente, l’osservanza delle procedure amministrative, cioè in sostanza gli atti amministrativi di autorizzazione.
Del resto, la loro inosservanza comporta, lo si voglia o meno, un celamento dell’urna cineraria, essendo il comportamento (materiale) sopra considerato tale da non corrispondere alle registrazioni, cui il collocamento e conservazione dell’urna cineraria sono soggette.
Ne discende che l’infrazione, la non osservanza delle procedure amministrative, in cui le registrazioni amministrative si sommano e concorrono con le autorizzazioni amministrative (la ripetizione di “amministrative” è del tutto intenzionale), fa sorgere fattispecie a rilevanza penale.
[1] – Il richiamo al furto porta a parlare di una “cosa mobile” (art. 624 C.P.), il ché solleva/può far sollevare la questione se l’urna cineraria sia tale (e, come mero contenitore, lo è) o, meglio, se le ceneri siano “cosa mobile” e, specificatamente, tali da essere oggetto di proprietà.
Ciò può essere esteso alle spoglie mortali, per le quali si dovrebbe considerare che, per quanto obiettivamente anche “cose mobili”, per la loro natura, non sono oggetto di un qualche diritto di proprietà, ma se ne sottraggono nettamente, per ragioni di vario ordine.
Proviamo a porre la questione in altri termini, che rendono più evidente il tutto: “””Chi è proprietario del “morto”? “”” Non interessa tanto il “chi” quanto se la salma, il cadavere, i resti mortali o qualsiasi altra spoglia mortale, possa essere oggetto di proprietà.
Ricordiamo, sia l’art. 48, comma 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., ma prima ancora la definizione stessa di proprietà (art. 832 C.C.), per cui il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico: si può sostenere che ciò valga, o possa valere, anche per un “morto”? Per questo, nel caso di specie, non si parla di “proprietario”, quanto di “soggetto, che è titolare di un qualche titolo a disporne”.