Ossario comune, funzione e problematicità

Prima di affrontare le pratiche funerarie (Capi XIV, XV e XVI D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.), il Capo XIII, comprendente il solo art. 67, affronta quel particolare “impianto” cimiteriale che è denominato: ossario comune, la cui presenza riguarda ogni (singolo) cimitero:
1. Ogni cimitero deve avere un ossario consistente in un manufatto destinato a raccogliere le ossa provenienti dalle esumazioni o che si trovino nelle condizioni previste dal comma 5 dell’art. 86 e non richieste dai familiari per altra destinazione nel cimitero. L’ossario deve essere costruito in modo che le ossa siano sottratte alla vista del pubblico.”.
Potrebbe apparire anomalo che, prima di prendere in considerazione l’inumazione, oppure la tumulazione (per la cremazione, un tempo molto marginale, ma la cui crescita si registra, in termini di accelerazione, da tempi più recenti e che vede un istituto sostanzialmente “gemello”, cioè il cinerario comune introdotto con l’art. 80, comma 6 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., anche questo previsto in ogni cimitero), si sia sentita l’esigenza di parlare dell’”ossario comune”.
Non si tratta di anomalia, solo se si vada a considerare come in moltissime culture (non vorremmo usare “tutte”, dato che alcune eccezioni sono presenti, come nelle c.d. sepolture a cielo aperto ed altre pratiche differenti), le cerimonialità che riguardano i defunti sono frequentemente doppie, a volte ravvicinate se non perfino consecutive, altre volte collocate nel calendario annuale a distanze di mesi (come in estremo Oriente), l’una dedicata ai defunti di cui sussista memoria, spesso rappresentata da specifiche sepolture ed elementi identificativi e l’altra dedicata ai defunti di cui sia ormai venuta meno una memoria espressamente individuale.
Queste duplici “feste dei morti” vedono la particolarità per cui in una di esse si sono formate tradizioni di visita ai cimiteri, di particolari (magari variabili a seconda dei luoghi) ritualità, frequentemente collettive, di comunità (es.: cerimonie a larga partecipazione, ecc.), preparazione di determinati piatti/cibi o dolci “d’occasione”, ecc., mentre l’altra ha un carattere “festivo” meno accentuato, più rimesso all’individualità.
Per uscire dalle formulazioni generali, che possono sconfinare nel generico, basterebbe fare l’esempio delle giornate di Ognissanti e di Commemorazione dei defunti.
Queste due “feste” (o, giornate) stanno a significare come le tradizioni non trascurino di attribuire valenza e significato ai defunti, anche quando se ne sia perduta la memoria individuale.
Del resto, gran parte delle civiltà del passato sono ormai conoscibili proprio dalla presenza di “segni” di ricordo, di luoghi deputati all’accoglimento dei defunti (c.d. necropoli) e le ossa altro non sono se non la componente corporea che, per le proprie caratteristiche, meno è esposta a processi trasformativi cadaverici, tanto che frequentemente questi ultimi sono la risultanza del loro completamento.
Di qui l’istanza di una loro conservazione, per quanto “collettiva”, ma “in perpetuo” (termini che si mutuano dall’istituto del cinerario comune), in cui l’elemento “collettivo” sottolinea l’appartenenza ad una popolazione costituita in comunità, fosse pure di ambito locale.
Mentre la “raccolta” delle ossa, a seguito del completamento dell’inumazione o della tumulazione (ma di “raccolta” si parla a anche per il cinerario comune) esprime un ulteriore fattore di pietas, portando a considerare come le ossa non siano un mero oggetto, ma conservino valenza simbolica e valoriale.
Non è casuale che l’art. 43, comma 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. (non senza tenere presente il suo precedente comma 3, non meno rilevante) vieti il commercio di ossa umane, anche se, nei commi precedenti, ne ammette, a date condizioni, usi a scopo didattico e di studio di ossa deposte nell’ossario comune.

Sotto il profilo tecnico-costruttivo l’ossario comune presenta un’unica indicazione, quella per cui debba essere costruito in modo che le ossa siano sottratte alla vista del pubblico.
Nei fatti si hanno le più diverse modalità di realizzazione dell’ossario comune, da quelle che vedono appositi “vani” ipogei (le denominazioni sono, come sempre, estremamente variabili nelle diverse realtà), oppure “vani” epigei, come non mancano collocazioni site nell’immediato sottotetto.
In particolare, con larga frequenza l’ossario comune può vedere l’utilizzazione di spazi vuoti che, per le loro caratteristiche, non sono idonei ad un utilizzo cimiteriale vero e proprio (cioè ad accogliere feretri, cassette ossario od urne cinerarie), ma, in quanto “inutili/inutilizzabili” a questi predetto fini, possono prestarsi ad accogliere ossa allo stato indistinto e “sfuso” (cioè, senza contenitore di sorta).
L’elemento della conservazione “in perpetuo” da un lato risponde al sentimento per cui le ossa umane non sono oggetti, ma quanto rimane comunque dei corpi dei defunti, dall’altro contrasta con il fatto che, tutto sommato, il tempo non è né lineare, né infinito e anche chi fondi argomentazioni su di ciò, alla fine si lascia andare a parlare, senza accorgersene, di una “fine dei tempi”.

Questa durata nel tempo (si può parlare di “tempo indeterminato”) produce, progressivamente, situazioni di saturazione degli spazi dedicati alla funzione dell’ossario comune, spesso costruiti al momento dell’impianto del cimitero, oppure “adattati” alla funzione in tempi successivi, ponendo problemi di gestione, non sempre agevoli da affrontare.
Alcune norme regionali (poche, per la verità) hanno ammesso la possibilità di ricorrere alla calcinazione delle ossa già deposte negli ossari comuni, in modo da ricavarne ceneri da raccogliere, a questo punto, nei cinerari comuni.
Altri hanno accademicamente (auspicando che sia rimasta accademia) ipotizzato operazioni ben poco sostenibili, come la frantumazione, la triturazione delle ossa per conseguire un aumento della capienza per la riduzione degli spazi vuoti tra le ossa, ipotesi che appare in contrasto con la funzione stessa dell’ossario comune (e sconta il divieto di cui all’art. 87 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. e lascia trasparire la fattispecie di cui all’art. 410 C.P.
Purtroppo, in caso di saturazione, il solo rimedio dovrebbe essere quello di realizzare ulteriori spazi da destinare ad ossario comune.

Fin qui si sono considerate solo alcune possibilità per far fronte alle situazioni di possibile saturazione degli ossari comuni, ma non si è considerato come molti di questi realizzati nel passato o, più o meno “adattati” alla funzione, presentino caratteristiche di difficile o impossibile “manipolabilità”, nel senso che molto frequentemente si tratta di spazi angusti e tali da non permettere azioni del personale, spesso anche solo per rimuovere le ossa in precedenza depostevi.
Costruzioni di ossari comuni risalenti nel tempo spesso possono essere state realizzate non tenendo conto delle prospettive di possibili future (rispetto al momento di costruzione) situazioni di saturazione (magari, solo per il fatto di ritenerla così lontana da non necessitare di prenderla in considerazione).
Oppure, vi possono essere ossari comuni realizzati o “adattati” senza considerare prospettive di eseguirvi operazioni, le quali non possono sottrarsi dall’osservare, con grande diligenza, tutte le prescrizioni che pongano, anche solo esponenzialmente, a rischio il personale, e per cui occorrerà predisporre adeguati strumenti, anche documentali, di valutazione del rischio, così come il ricorso a “strumentazioni” (quando possano essere reperibili, o realizzabili ad hoc) che possano consentire in qualche modo di operare in spazi normalmente inadeguati ed inagibili. Si tratta di difficoltà che spesso dilatano i tempi d’intervento, cosa che incrementa la problematicità, e l’urgenza, di reperire, ed attuare, soluzioni sostenibili.

Verrebbe da concludere con una provocazione, chiedendoci se o quanto possa essere sostenibile una prospettiva di “fusione” tra ossario comune e cinerario comune, così da utilizzare gli interstizi tra le ossa per la raccolta delle ceneri. Sarebbe proprio una, per così dire, “bestemmia”?

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Sereno Scolaro

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