Ossa dimenticate: che fare?

Forse può essere noto, quanto meno alle lettrici e lettori maggiormente frequenti, come non piaccia il termine “resti ossei”, anche se quale norma regionale l’utilizzi, preferendosi quella, più breve, di “ossa” (proprio volendolo anche “ossa umane”).
Ora, sempre rimanendo in tema di termini, vi sia chi preferirebbe non parlare di “sepolcri abbandonati” (in stato di abbandono) quanto di “sepolcri dimenticati”, può anche accadere che si registrino situazioni in cui oggetto di una qualche “dimenticanza” non siano solo i “sepolcri”, ma altresì le “ossa”.
È accaduto che un dirigente abbia visitato alcuni dei cimiteri del comune, non come visita, per così dire, ispettiva, quanto conoscitiva, trattandosi di dirigente di abbastanza recente insediamento.
In tale occasione è emerso che in alcuni “spazi”, contenuti ed impraticabili, vuoti ed inutilizzabili per altre finalità, si venissero a trovare sacchi contenenti ossa, alcuni con etichette riportanti i nominativi dei defunti, altri privi, alcuni altri ancora lacerati così da consentire la visione del contenuto, inequivoco.
La situazione ha determinato che in sede locale venissero disposte alcune ricerche per comprendere cosa avesse prodotto queste modalità di conservazione (?), col reperimento di files (che, alla luce del C.A.D., D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e s.m., costituiscono pur sempre “documenti amministrativi”), databili (datati) alla metà degli anni ’90 del XX Sec., cioè tra i 25 e i 30, o più, anni rispetto ad un tale rinvenimento occasionale.
Tali ricerche risentivano del fatto che il personale attualmente presente nel servizio (così come nel cimitero de quo) non fossero all’epoca ancora operativi, con la conseguenza che difettava una “memoria” di eventi risalenti a quel periodo.
Cercando una quale ricostruzione, per quanto possibile individuare notizie, sembrerebbe che si tratti di ossa provenienti da estumulazioni eseguite su ossarietti individuali (qualcuno li chiamerebbe: “cellette ossario”), probabilmente oggetto di scadenza, non senza escludere la possibilità che si trattasse di una “collocazione” provvisoria in occasione di eventuali possibili lavori di ristrutturazione.
In tal caso, probabilmente sarebbe possibile reperire documentazione (progetti, delibere, provvedimenti, altro) tale da consentire, al di fuori della “memoria individuale” di questo o quel dipendente, di capire l’origine di una tale situazione.
Per altro, quale sia o possa essere stata quest’origine, vi è un elemento da tenere presente, cioè il fatto che, trascurando l’irritualità delle modalità di conservazione (?), dato che le ossa erano contenute in ossarietti individuali:
a) le ossa dovrebbero essere state raccolte in cassette ossario (artt. 36 e/o 85, comma 1 e/o 86, comma 5 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.);
b) dovrebbero esservi stati familiari aventi titolo a disporre delle ossa chiamati ad una qualche attività di diligenza ai fini della loro sistemazione in sito cimiteriale idoneo, salva la possibilità, anche qui in termini di inerzia (disinteresse?), di collocamento delle ossa nell’ossario comune (destinazione fisiologica, salvo eventuale rinnovo, nel caso di scadenza delle concessioni relative agli ossarietti individuali).
Come affrontare una tale situazione? Considerando il tempo decorso, una soluzione immediata potrebbe essere quella di disporne, anche con mero atto interno o semplice ordine di servizio del responsabile del servizio di custodia per il trasferimento dall’attuale sistemazione all’ossario comune.
Si potrebbe anche considerare questa collocazione, quale emersa, quale ossario comune, per quanto l’art. 67 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. (o, se vigente, qualche disposizione regionale che, più o meno, ne sia corrispondente) preveda che esso sia un “manufatto” (da valutare in sede locale se e quanto quella collocazione così accidentalmente emersa possa considerarsi tale).
Va osservato come l’appena citato art. 67 si differenzia dal cinerario comune (successivo art. 80, comma 6) per il fatto di non precedere “… la raccolta e la conservazione in perpetuo e collettiva …”, anche se, nei fatti, l’ossario comune comporta questa conservazione “collettiva”, promiscua (cioè, indistinta) delle ossa, fattore da considerare state che il reperimento, nelle condizioni descritte, mantiene, pur con i vizi di qualche lacerazione, la presenza o l’assenza di etichettature, alcuni elementi di identificabilità.
Non va però trascurato il fatto che questo “percorso” può apparire troppo semplice, in particolare tenendosi presente le “incertezze” circa gli eventi avvenuti decenni addietro e non sufficientemente documentati.
Questo porta ragionevolmente a valutare l’ipotesi di adottare un approccio maggiormente articolato, che potrebbe consistere in un provvedimento (adottato ai sensi dell’art. 107, comma 3, lett. f) T.U.E.L., D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m.), debitamente oggetto di pubblicazione all’albo pretorio, nonché con le modalità dell’art. 32 L. 18 giugno 2009, n. 69 (nonché art. 2, comma 4-bis L. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.) e, laddove ciò sia previsto nel Regolamento comunale di polizia mortuaria, anche all’albo del cimitero, in cui si disponga per l’avviso agli eventuali familiari della possibilità di dare diversa destinazione alle ossa, precedendo che, decorso un certo tempo dopo l’ultimo giorno previsto per la pubblicazione e non vi siano stati atti di disposizione da parte dei familiari aventi titolo, si determinerà una situazione inerziale, di disinteresse, e verrà provveduto al collocamento delle ossa nell’ossario comune.
Circa la durata di questa pubblicazione (ma anche il tempo successivo all’ultimo giorno della pubblicazione) si potrebbe dare applicazione del termine considerato all’art. 3, comma 1, lett. g) L. 30 marzo 2001, n. 130, anche se questo appaia decisamente molto breve, per cui potrebbe essere opportuno individuare termini un po’ più ragionevoli.
La maggiore articolazione di questo procedimento potrebbe essere tacciata di eccedenza (aggravamento ex art. 1, comma 2 L. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.?), anche se il termine in precedenza qualificato quale “molto breve” trovi riscontro nell’art. 2, comma 2 appena citata L. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.).
Sia permessa una valutazione, di ordine generale, quella per la quale un buon livello di diligenza, di coerente applicazione delle disposizioni in materia di procedimenti amministrativi, non tutela unicamente le persone, i soggetti privati – eventualmente – interessati e/o che dovrebbero qualificarsi “parti” (più o meno, necessarie), ma tutela, in primis, chi (amministratore/soggetto affidatario del servizio) agisce nell’esercizio della funzione e non solo in modo da prevenire azioni (siano esse penali o civili) per danno e/o comportamenti che derivino da una carenza operativa, ma in termini sostanziali.
Quanti assolvono ad una qualche funzione pubblica sono chiamati a guardare alla sostanza, non senza richiamare gli artt. 54, comma 2 e 97, comma 1 Cost.

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Sereno Scolaro

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