La morte è evento sociale

Nel corso della fase di maggiore acutezza della pandemia da CoVid-19 poteva essere abbastanza frequente leggere necrologi recanti l’indicazione “La cerimonia si terrà in forma privata”, o formulazioni simili sotto il profilo sostanziale.
Ciò in conseguenza del fatto che la situazione pandemica portava ad un contenimento (spesso accentuato) di tutte le situazioni in cui vi poteva essere un qualche assembramento di persone.
Terminata questa fase (ma è proprio terminata?) le limitazioni sono venute meno tornando a comportamenti generalmente seguiti in precedenza al sotto il profilo delle ritualità funebri.
Tuttavia, a distanza di qualche tempo dal venire meno delle misure di cautela sorte ai fini del contenimento virale, stanno, qui o là, in misure ancora non uniformi, emergendo modalità di comportamento in precedenza assenti o, quando presenti, del tutto marginali e tali da non avere rilevanza.
Modalità che costituiscono segnali di un’evoluzione, più o meno trasversale, o nella ripresa della “celebrazione in forma privata” o nei necrologi resi pubblici dopo la “sepoltura”/cremazione, fino al superamento stesso delle pratiche attorno ai necrologi (queste ultime del tutto pressoché non rilevabili, ma presenti).

Le ritualità funebri, quali veglie, cerimonie, esequie (il cui estimo importa l’”andare dietro”, seguire un corteo … funebre), fino al pranzo funebre, assolvono ad una funzione corale, di partecipazione di una pluralità di persone che non sono solamente i familiari e/o le persone aventi vincoli affettivi, ma si estendono a numerose categorie di persone (amici, colleghi di lavoro, vicini, conoscenti, anche occasionali ed altre).
Si tratta di componenti della c.d. elaborazione del lutto (che non opera solo per gli stretti familiari), con una connotazione di socialità, tanto che un osservatore esterno può cogliere il ruolo (o, solo: presenza) nella società della persona defunta valutando i numeri delle persone partecipanti.
La scelta di escludere queste prassi appare una sorta di privatizzazione del lutto che non è solo egoistica, solipsistica intimizzazione (ciò potrebbe aversi per le persone già aventi stretti legami affettivi con la persona defunta), ma che porta a negare il fatto di come la morte sia un evento in primis sociale, interessando non solo la persona defunta (ed i suoi più stretti familiari) ma un insieme allargato di persone, che avevano relazioni, più o meno strette, con la persona defunta.

Situazioni simili sono presenti anche in altri Paesi, come (es.) nei paesi anglofoni dove si registrano pratiche denominate “cremazione diretta”, consistente nell’effettuazione della pratica funebre, senza alcuna altra cerimonialità o forme di commiato più o meno rituale o formalizzato.
La tendenza a contenere, fino a progressivamente escludere, le componenti di socialità della morte porta ad uno sbocco peculiare, nel senso di far perdere al corpo della persona defunta quegli elementi che, in ogni cultura, qualificano il corpo non come oggetto, ma come un “quid” del tutto carico di significati.
Così tanto da essere degno di tutela in tutte le fasi, quale ne sia lo stato, fino alle ossa, tutela non a caso assicurata da disposizioni penali, che, come largamente noto, coinvolgono non solo le spoglie mortali, ma anche i loro contenitori, così come il sito di allocazione.

Si tratta di segnali che appaiono rilevabili anche dalle indagini svolte da O.R.M.E. (Osservatorio per la Ricerca sulla Morte e le Esequie) in cui, tra le altre, si sono raccolte indicazioni in proposito, registrandosi tendenze in nuce verso l’indifferenza per le pratiche funerarie ed altresì percezioni per cui ormai i cimiteri costituirebbero risposte ad esigenze del passato.
E qui confondendo un “modello” storicamente determinato di cimiteri con la funzione cimiteriale in sé, quella stessa che ha permesso di riconoscere e studiare le società, evolutesi nel tempo, proprio dagli studi sulle necropoli.
Se il corpo della persone defunte perde questa sua valenza anche antropologica potrebbe pervenirsi a qualificarlo come uno dei tanti rifiuti e, trattandosi di materiale organico, non si dovrebbe parlare di corpo (salma, cadavere, resti mortali, spoglie mortali nei vari stadi, ecc.), quanto di carcasse di cui disfarsi in qualche modo.
E la concezione del “corpo” come rifiuto porta a ricercare metodi e/o tecnologie alternative di trattamento (smaltimento?), a volte ritenute più ecologiche, spesso senza tenere conto delle componenti energetiche, cosa che non sopprime il lutto, cui le tecnologie sono estranee.
Si ha la convinzione che se un dato “modello” cimiteriale possa essere ad una fase di svolta, di mutamento, di trasformazione questo non possa implicare la negazione della valenza sociale della morte e del tutto, quali che siano le pratiche adeguate ad una data fase di elaborazione culturale in materia.

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