Fortunatamente le condizioni generali della salute sono migliorate nell’ultimo, e più, secolo, cosicché i vasi di nati morti sono decisamente diminuiti, anche grazie a tutta una serie di misure di prevenzione, oltretutto disponendo di tecnologie impensabili sono pochi decenni addietro, che oggi sono poste in essere a tutela della maternità. Purtroppo, ve ne sono ancora.
L’art. 7 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., al comma 1, esclude, per così dire, dall’ambito della propria applicabilità proprio i nati morti, per i quali “Per i nati morti, fermo restando le disposizioni dell’art. …. (si cita una disposizione del R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, oggi abrogata e, oggi, riferibile all’art. 37 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.) … si seguono le disposizioni stabilite dagli articoli precedenti..
L’art. 37 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m. recita:
“Art. 37 (Casi particolari)
(I) 1.- Quando al momento della dichiarazione di nascita il bambino non è vivo, il dichiarante deve far conoscere se il bambino è nato morto o è morto posteriormente alla nascita. Tali circostanze devono essere comprovate dal dichiarante con certificato medico.
(II) 2. L’ufficiale dello stato civile forma il solo atto di nascita se il bambino è nato morto e fa ciò risultare nell’atto stesso; egli forma anche quello di morte, se il bambino è morto posteriormente alla nascita.”.
Non si entra qui nel fatto che questa disposizione (formazione del solo atto di nascita con menzione della circostanza di nato morto) risalga al R.D. 15 novembre 1865, n. 2602, cioè quando questa tipologia di registrazioni era la sola esperibile.
È stato solo con il R.D. 15 ottobre 1936, n. 2128 che è stato introdotto il “certificato di assistenza al parto”, innovazione che il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238 non ha tenuto conto, come non ne è stato tenuto conto col successivo D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.
Superando queste vicende, si deve considerare come vi sia una peculiarità, consistente nel fatto che il nato morto non acquisisce la capacità giuridica, per effetto dell’art. 1 C.C. e, pertanto, non dovrebbe neppure essere destinatario di attribuzione del prenome (art. 6, comma 2 C.C.), cosa che, per prassi, viene superata per il fatto che il “modulo C” (o, “modulo D”, se del caso) con cui sono redatti di atti dello stato civile per i registri per gli atti di nascita lo prevedono, e, tutto sommato, nulla cambia, non essendovi lesioni di posizioni giuridiche di terzi.
Anzi, questa procedura, per quanto di prassi, appare maggiormente rispettosa della posizione dei genitori, dato che una tale circostanza è sempre tale da richiedere un’elaborazione che incide profondamente.
Nel caso di figli nati nel matrimonio (usando la terminologia introdotta con la L. 10 dicembre 2012, n. 219 e relativi atti di attuazione) il rapporto di filiazione è dato dallo stato di coniugio tra i genitori.
Nel caso di figli nati fuori dal matrimonio il rapporto di filiazione sorge con il riconoscimento da parte di entrambi i genitori, oppure da parte di uno solo di questi (artt. 250 e ss..
Ci sarebbe anche l’ipotesi della dichiarazione giudiziale di filiazione, che produce i medesimi effetti, ma si tratta di aspetti su cui qui poco rileva approfondire.
Vi è stata la richiesta di cremazione di un nato morto. Non si entra nel merito per cui la cremazione, per ragioni (purtroppo) dimensionali, potrebbe conseguire ben poche ceneri, qualora se ne conseguano, tanto più che si tratta di una “scelta” proveniente dai genitori.
Ricordando l’art. 3, comma 1, lett. b), n. 4 L. 30 marzo 2001, n. 130, per cui: “4) la volontà manifestata dai legali rappresentanti per i minori e per le persone interdette;”, non si ravvisano difficoltà nel caso di nati morti nel matrimonio, con la osservazione per cui la “maggioranza assoluta” di 2 (genitori), di cui all’immediatamente precedente n. 3, è 2, per cui la manifestazione di volontà va espressa da entrambi i genitori/coniugi.
Nel caso di nato morto fuori dal matrimonio la cosa diviene meno lineare, in quanto l’art. 255 C.C., avente la rubrica: “Riconoscimento di un figlio premorto”, dispone: “ Può anche aver luogo il riconoscimento del figlio premorto, in favore dei suoi discendenti., che costituisce un serio ostacolo, in quanto per il nato morto non è ipotizzabile che questi possa avere, nel tempo, discendenti.
Si potrebbe pensare a superare quest’ostacolo, avvalendosi dell’istituto della dichiarazione giudiziale di filiazione (artt. 269 e ss. C. C., ma qui si riscontra l’ulteriore ostacolo per il fatto che questo istituto è esperibile: “em>nei casi in cui il riconoscimento è ammesso, riportando la questione, per quanto qui interessa, del limite di cui al sopra richiamato art. 255 C. C.
In via del tutto teorica, se non vi fosse l’ulteriore limite posto dall’art. 269 C.C., questo istituto richiederebbe, quanto meno, la nomina, da parte del giudice, di un “curatore speciale” del riconoscendo (art. 273 C. C.), cioè del nato morto, ma si tratta di una forma di “protezione degli incapaci” che non può trovare spazio, in quanto il nato morto non ha neppure acquisito la capacità giuridica.
Né consideriamo che i tempi giudiziari per ottenere un’eventuale nomina di un “curatore speciale” sarebbero incongrui con la tempistica per autorizzare la cremazione, anche nell’ipotesi che vi sia giudice che, comprendendo la situazione particolare, “acceleri” i termini procedurali.
Neppure è possibile ricorrere all’art. 3 D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254, dato che il nato morto non è classificabile all’interno di questa disposizione.
In tal modo, si ha una differenziazione tra nato morto nel matrimonio e nato morto fuori dal matrimonio, conseguendo il risultato che questo ultimo può essere senz’altro oggetto di inumazione oppure di tumulazione, ma non di cremazione, differenza che è palesemente incongrua.
Ma una tale incongruità si ha anche per quanto regolato dall’art. 7, commi 2 e ss. D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. per il quale è abbastanza uniformente condivida, almeno in termini di “prassi praticata”, l’interpretazione che tende a dare alla parola ”sepoltura” il significato – indifferenziato – di inumazione, di tumulazione o di cremazione, lasciando, in buona sostanza, ai genitori, le scelte del caso (Cfr.comma 3).
Aderendo a questa impostazione, ultronea rispetto ai dati testuali, rimarrebbe, sempre per i nati morti fuori dal matrimonio la questione della titolarità dei genitori (o di uno di questi) alla manifestazione di volontà, titolarità che richiederebbe l’avvenuto riconoscimento di filiazione.
Dato che vi sono orientamenti che vorrebbero modificare l’art. 1 C. C., nel senso di far sorgere la capacità giuridica non con la nascita (in alcuni ordinamenti di altri Stati la capacità giuridica si acquista con la nascita, ma sub condicione che il nato abbia vissuto almeno 24 ore, segno che non mancano impostazioni differenti), bensì col concepimento, si osserva come questa prospettiva nulla cambierebbe nei riguardi dei nati morti fuori dal matrimonio: il “nodo” infatti non è sulla capacità di agire, ma sull’ammissibilità del riconoscimento di filiazione.
Ma anche in questo caso, come nell’attribuzione del prenome, un qualche comportamento in contrasto con le norme (pensate, e scritte, per altre situazioni) non determinerebbe lesioni di sorta a posizioni giuridiche di terzi.
Non può sottovalutarsi che il nato morto è sempre una tragedia per i genitori, o per il genitore, la quale va rispettata.