Il verbale di cremazione

Il verbale di cremazione è richiamato all’art. 81 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., prevedendo, per inciso, che abbia quale contenuto proprio la consegna dell’urna cineraria e non l’avvenuta esecuzione della cremazione in sé.
Anche se, nella pratica operativa, spesso viene privilegiata questa seconda e non la prima, per quanto quest’ultima ne sia successiva.
Non ci addentriamo sulle destinazioni dei tre esemplari, se non per rilevare che il terzo viene trasmesso all’ufficiale dello stato civile, senza indicazioni circa quale ne sia il destinatario di tale trasmissione (cioè quello che ha rilasciato l’autorizzazione alla cremazione, oppure quello operante presso il comune nel cui cimitero è operativo l’impianto di cremazione), anche se un approccio sistematico porta ad individuarlo nel primo, non solo per la competenza (territoriale, da non confondere con quella funzionale) al rilascio dell’autorizzazione alla cremazione, ma anche richiamandosi alla previsione dell’art. 26 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., il cui comma 1 presenta la previsione di un’unicità del provvedimento autorizzativo al trasporto, derogando da criteri di portata più generale (comma 2), unicità che coinvolge due “oggetti” ben diversi: nella prima fase “oggetto del trasporto” è il feretro, nella seconda fase è l’urna cineraria.

Di maggiore interesse paiono essere quelle che sono le conseguenze collegabili alla formazione (e suoi contenuti) del verbale considerato dall’art. 81 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Questo anche avendosi presente come la gestione dell’impianto di cremazione possa essere sia del comune nel cui cimitero si trova l’impianto di cremazione (la cui individuazione spesso lascia i familiari dei defunti estranei), ma anche altri “soggetti”, dal momento che gli impianti di cremazione possono essere gestiti da aziende speciali, da aziende partecipate, in tutto o in parte, dal comune (ma sono soggetti di diritto privato), da soggetti ulteriormente terzi affidatari del servizio secondo le norme nazionali e dell’Unione europea che regolano questi aspetti, fino a forme di PPP (partnernariato pubblico privato), incluso il ricorso alla finanza di progetto.
Per questo poniamo l’attenzione principalmente sulle situazioni in cui il “soggetto gestore” non sia il comune, dal momento che in questo ultimo caso alcuni aspetti sono pianamente affrontabili.
Infatti, talora emergono indicazioni che portano a considerare aspetti apparentemente “collaterali”, ma che meritano un quale, seppur minimo, approfondimento, nella specie quando il predetto verbale sia incompleto o rappresenti una situazione diversa da quella oggettiva, cioè diversa dal “fatto” esposto nel verbale.
Quest’ipotesi porta a richiamare il Libro II, Titolo VII, Capo III del C.P., che parte (artt. 476 e ss. C.P.) dal considerare il ruolo di un qualche pubblico ufficiale, pervenendo quindi a figure di incaricati di pubblico servizio e/o persone esercenti un servizio di pubblica necessità, ma – soprattutto – richiamando la natura oggettiva dell’atto (in quanto atto pubblico, cosa che solleva la questione se un tale verbale si configuri come tale).
Va ricordato come la definizione di atto pubblico sia rinvenibile all’art. 2699 C.C. [1], ma nelle ipotesi di un “soggetto gestore” che non sia il comune qualche dubbio va sollevato.
L’ipotesi di una qualche falsità posto in essere da un privato inizia ad essere considerata all’art. 482 C.P., oltretutto considerando la falsità materiale e non quella ideologica, quest’ultima consistente in una rappresentazione diversa dal fatto rappresentato nell’atto.
Si potrebbe anche valutare se vi sia la fattispecie (art. 483 C.P.) della falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, cosa che riapre la questione se il verbale de quo abbia natura di atto pubblico, cosa che, stante la definizione datane dal citato art. 2699 C.C., si tenderebbe ad escludere.

Per cercare di dare alla questione un inquadramento, si ritiene utile fare richiamo all’art. 12, comma 4 D.-L. 31 agosto 1987, n. 359, convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1987, n. 440 [2], che ha affermato, attraverso un processo di equiparazione con l’inumazione in campo comune (art. 58 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. (con esclusione di quanto elencato dall’immediatamente successivo art. 59), unico “servizio” che costituisce il c.d. fabbisogno cimiteriale; Cfr.: altresì art. 337 T.U.LL.SS., R. D. 27 luglio 1934, n. 12654 e s.m.), come la cremazione costituisca un servizio pubblico, qualificazione rimasta immodificata anche con l’entrata in vigore della L. 30 marzo 2001, n. 130, come ne è prova, apparentemente indiretta, dal suo art. 5, dato che se non si trattasse di servizio pubblico, non avrebbe fondamento la previsione del comma 2 di questo ultimo.
Da questa oggettiva qualificazione discende che possa trovare applicazione la disposizione dell’art. 481 C.P. quando il “soggetto gestore” dell’impianto di cremazione e, quindi, il “soggetto” agente nella formazione del verbale considerato dall’art. 81 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., sia figura diversa dal comune.
Ora, se chi legge sia minimamente (ma proprio poco poco) attento, potrà osservare come l’appena richiamato art. 481 C.P., tra le altre fattispecie, consideri quella dell’esercizio di un altro (rispetto a quelle appena prima elencate) servizio di pubblica necessità, mentre la cremazione ha natura di servizio pubblico.
La distinzione può apparire di poco conto, ma comunque è presente. Non si ha remora ad ammettere, se lo si ritenga, che questo collegamento possa essere, o apparire, come una certa quale “forzatura”, per cui non ci si può sottrarre ad una qualche argomentazione.
Da un lato, si può pensare ad un percorso analogico, in qualche modo de residuo, sulla constatazione che un approccio meramente e piattamente letterale porterebbe che quando il “soggetto gestore” sia un soggetto terzo questo goda di una sorta di immunità potendo formare nel predetto verbale indicazioni di fatti non corrispondenti ai fatti avvenuti.
Di maggiore consistenza ci parrebbe un altro approccio, cioè quello per cui la qualificazione della cremazione quale “servizio pubblico”, operante dal 31 ottobre 1987, non è isolata e posta come fine a sé stessa, ma è correlata ad altro, cioè: “… al pari della inumazione in campo comune … (evitiamo, qui, si rilevare come alcuni rinvii contenuti in tale disposizione presentino errori – materiali? – di citazione), secondo una logica di equiparazione.
Da ciò consegue che non possa dubitarsi come l’inumazione in campo comune costituisca un “servizio di pubblica necessità”, alla luce delle disposizioni di legge e di regolamento che sono state in precedente richiamate a tal proposito, per cui, a valle, anche la cremazione ha natura di servizio di pubblica necessità.


[1]Codice civile, Art. 2699 (Atto pubblico)
L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato.

[2]Art. 12, comma 4 D.-L. 31 agosto 1987, n. 359, convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1987, n. 440.
“4. La cremazione di cui al titolo XVI del decreto del Presidente della Repubblica 21 ottobre 1975, n. 803, è servizio pubblico gratuito al pari della inumazione in campo comune indicata all’articolo ….
( omissis )”.

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Sereno Scolaro

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