Da tempo sono in corso dibattiti attorno alla natura delle I.O.F., dibattiti che pongono in evidenza “visioni” ben diverse.
Pare importante partire dalla definizione di impresa che trova esplicitazione nell’art. 2082 C.C. (Libro V, Titolo II, Capo I), per il quale:
“È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”.
A questa definizione seguono quelle di “piccola impresa” (art. 2083), dell’impresa agricola (art. 2135), fino alle “imprese commerciali” (art. 2195 e ss.), mentre l’”impresa familiare” era già stata considerata all’art. 230-bis C.C.
Non ci si addentra nelle diverse definizioni qui ricordate, andando solo a considerare la principale, cioè quella sopra richiamata, che, accanto all’esercizio professionale, prende in considerazione un’attività economica, finalizzata alla produzione, oppure allo scambio di beni o di servizi.
Nell’ambito delle I.O.F. un cenno merita il fatto che, qui o là, si tende a non parlare di “impresa”, quanto di “agenzia, termine che ci pare improprio alla luce della definizione che di questa ultima fornisce, ancora una volta, il C.C. il quale, all’art. 1742 ne esplicita la nozione, quale:
“[I] Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata.
[II] Il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduca il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive. Tale diritto è irrinunciabile. “.
Qui non si considera l’impresa (o, l’imprenditore) quanto un rapporto (contratto) tra due “parti”, che comporta una “retribuzione” (non un “corrispettivo”, termine che ci parrebbe pertinente ad una produzione o ad uno scambio di beni o servizi), rapporto finalizzato a “promuovere, per contro dell’altra parte contrattuale, contratti in una data zona”. In pratica, l’istituto del contratto di agenzia è un contratto di intermediazione.
A differenza del contratto di agenzia, la qualificazione di impresa comporta che vi sia un soggetto che, professionalmente esercita un’attività economica di produzione o scambio di beni o servizi, cosa che comporta che l’impresa disponga delle strutture (risorse finanziarie, strumentali, umane, ecc.) che lo pongano nella condizione oggettiva necessaria (potremmo, per brevità, chiamarla “requisiti tecnico-organizzativi“, anche se non si tratta solo di questo) per esercitare l’attività economica de quo e, aggiungiamo … con l’ordinaria diligenza propria dell’imprenditore.
I dibattiti cui si faceva cenno inizialmente, vedono orientamenti che supportano un’impostazione d’impresa come qui enunciata, ma anche orientamenti che tendono a non darvi pieno contenuto, ad esempio, ammettendo che le strutture imprenditoriali necessarie possano non essere dell’impresa, attraverso processi di avvalimento col ricorso a strutture di soggetti terzi. Ovviamente, vi sono anche soluzione che si collocano in posizioni intermedie, con un ampio (più di quanto non si immagini ad un’analisi sommaria) ventaglio di sfumature.
Ora, fermo restando che vi possono anche essere situazioni che possono suggerire il ricorso a terzi per alcune fasi di operatività dell’attività economica, ogni discussione dovrebbe, se vuole supportarsi con argomenti adeguati, partire dalla predetta definizione d’impresa e chiederci se e/o quanto sia ancora impresa il soggetto che non disponga di quanto necessario a svolgere l’attività economica della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Sottolineando che sia la produzione può avere ad oggetto tanto i beni che i servizi (entrambi oppure l’uno e/o l’altro), ed altrettanto vale per lo scambio, oltre che avere un mix di produzione e scambio.
Nelle discussioni che corrono sembra che non sempre questi aspetti siano adeguatamente considerati, ma anche che siano presenti indirizzi orientati verso progetti in cui la natura di impresa si alloca tendenzialmente in aggregati di una certa consistenza, affiancati da una galassia di soggetti che, di fatto, assolvono alla funzione di “agenzia” (cfr.: supra), usati per presentarsi sul mercato in termini localmente noti, avvalendosi di rapporti, a volte consolidati, di fidelizzazione locale, attraverso l’uso di brand locali.
È stato, volutamente, utilizzato reiteratamente, il termine locale, proprio per evidenziare come in tal modo la clientela rischi di non avere diretta conoscenza di quale sia l’operatore economico a cui si rivolgono.
Il fenomeno è presente in numerosi settori, ben oltre quanto non sia percepito: basterebbe considerare (e.g.) come Heineken, importante gruppo sovra-nazionale nella produzione e commercializzazione di birra, si presenti sul mercato con (soli!) 500 brands.
Situazioni analoghe sono presenti in molti campi dell’attività economica, con contestuale proliferazione di società od altri organismi.
Non si ignora quanto i processi economici stiano percorrendo la strada delle aggregazioni, ma ciò dovrebbe portare a considerare se e fino a quanto possa ancora parlarsi di impresa e fino a quando l’autonomia dell’imprenditore abbia contenuto.
E il parlare di “autonomia” porta chiaramente a porre la domanda su quale sia il vero “imprenditore”, in altri termini se questi possa essere individuato in chi si relazione con il mercato (e la clientela) o su chi lo supporti, spesso con strategie ed interessi propri, non sempre omogenei con quelli del primo.
E la questione dell’autonomia porta anche ad un’altra domanda: quale è il soggetto debole e chi è esposto a rischio?
Non importa propendere per una “visione” o per altra, ma avere cognizione degli effetti che l’una, l’altra o quelle intermedie, possano produrre, sia dal punto di vista di chi professionalmente esercita l’attività economica, sia dal punto di vista del mercato, fino agli effetti sulla clientela finale.