Un contributo a firma di Necroforo del 10 novembre u.s. (ultimo giorno dell’annata agraria), intitolato: “Morte, salme e cadaveri: qualche orientamento filosofico…”, richiamava, tra l’altro, la parola: “miasmi”.
Il termine era presente anche nella circolare del Ministero dell’interno n. 2129-8 del 30 settembre 1970 “Avvertenze sulla polizia igienica dei cimiteri”, oltretutto utilizzando questa (ritenuta) evenienza per la definizione della zona di rispetto cimiteriale, da un minimo di 200 m. fino a 1.000 m., richiamandosi anche alle risultanze del Congresso generale di Igiene, tenutosi nel 1852 a Bruxelles.
Risalendo ancora all’indietro nel tempo gli stessi atti normativi dell’inizio del XIX sec. che hanno, in Europa (almeno quella continentale) portato alla de-localizzazione dei cimiteri al di fuori dei centri abitati, trovavano motivo in argomentazioni di matrice igienistica.
Questo non deve far dimenticare come, in precedenza, vi fossero pratiche (all’epoca della loro istituzione considerate “moderne” e “avanzate”), in cui erano presenti modalità di “sepoltura” che oggi sono improponibili (per inciso, l’art. 76 R.D. 6 settembre 1874, n. 2120 aveva vietato la deposizione dei cadaveri nelle così dette fosse carnarie): si pensi al largamente citato cimitero napoletano c.d delle 366 fosse (1762), formato da un numero di cripte ipogee (una per giorno, inclusi gli anni bisestili) in cui si deponevano, senza cassa (all’epoca le casse erano utilizzate per il solo trasporto, quando lo fossero), i cadaveri ciascuna in relazione al giorno della sepoltura, riaprendo la botola di accesso, dall’alto, solo per la deposizione da effettuarsi nel corrispondente giorno dell’anno successivo: è evidente che in un ambiente chiuso e privo di aerazione i processi trasformativi avessero un determinato andamento.
Per altro, questa pratica non era così ampiamente praticata, prevalendo, in termini quantitativo e di diffusione territoriale, la pratica dell’inumazione, tra l’altro utilizzando profondità che, rispetto alle attuali, potevano considerarsi superficiali.
In particolare, nelle realtà in cui, in luogo di cippi lapidei, si utilizzavano “segni” (es.: croci) in metallo, dai gas potevano generarsi i c.d. “fuochi di Sant’Elmo”, quasi a esprimere, anche visivamente, la presenza dei defunti.
Chi visita oggi i cimiteri e, soprattutto, chi vi opera non ha più modo di osservare questi fenomeni, anche come conseguenza delle profondità prescritte (questione che meriterebbe qualche studio scientificamente strutturato, dato che, probabilmente, una minore profondità potrebbe costituire un fattore di miglioramento dei processi trasformativi, per un prevedibile maggior apporto di fattori di ossidazione).
Si potrebbe dire che nei cimiteri attuali non si registrino pressoché più i miasmi, che tanto preoccupavano nei secoli passati.
Né nell’inumazione, né nelle tumulazioni, anche se la prescrizione sulla impermeabilità ai liquidi ed ai gas delle costruzioni potrebbe lascia pensare ad una (assoluta?) mancanza di aerazione.
Piuttosto, dal punto di vista di cui svolge la propria attività all’interno dei cimiteri, vi sono altri aspetti che meritano di essere oggetto di attenzione.
Per le inumazioni, ricordando l’art. 118, comma 1, secondo periodo D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m. e gli artt. 72 e 73 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., si coglie come questi ultimi prevedano una profondità superiore a 1,50 m. per cui non può provvedersi allo scavo manuale, per non richiamare il successivo art. 146 del citato D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.
Considerazioni analoghe vanno fatte per le tumulazioni, siano esse in loculi ipogei che epigei, spesso presentanti una pluralità di file, in verticale, dove, a volte, quelle di maggiore altezza (o, profondità) mal si prestano al collocamento del feretro.
Non senza trascurare quanto possano essere diffuse costruzioni molto risalenti nel tempo, che non consentono una normale osservanza delle norme in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, per le quali potrebbe non essere sufficiente fare applicazione delle disposizioni dell’art. 106 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Le preoccupazioni ottocentesche sui miasmi, anche di produzione cadaverica (per leziosità, di cui si riporta un estratto della copra citata circolare del 30 settembre 1870: “… Per le siepi che soglionsi piantare i viali od i stradoni dei cimiteri non si useranno quelle piante le quali, come per es., il bosso, servono di ricettacolo ed anche di nutrimento ai numerosi vermi che vi si raccolgono, e vi muoiono, contribuendo così colla loro decomposizione a rendere più insalubre l’aria del cimitero.
Le rose, i garofani, i geranii, il timo, lasantoreggia, la maggiorana potranno utilmente usarsi nelle piccole aiuole che la pietà e l’affetto dei superstiti trova un conforto nel coltivare al piè della croce che si distingue dalle altre la fossa ove riposano le spoglie mortali dei loro congiunti.
Gli antichi popoli furono assai industriosi nell’adornare con piante e con fiori i sepolcri e le tombe dei loro parenti, e ne seppero fare tal uso da esprimere con essi un senso di recondito il più conveniente alle loro particolari affezioni.
Il tasso (sempre verde) fu l’emblema della immortalità dello spirito; l’alloro e la palma cresciuti sulla tomba dei guerrieri furono il premio delle loro vittorie; due edere intrecciate ricordarono mestamente il fatto immaturo di due teneri sposi; il mirto il giglio, larosa furono il simbolo dell’amore, della castità delle verecondia; i papaveri distinsero il sepolcro del vecchio venerando, e una colonna di sempreverdi riposò sull’urna della madre feconda di numerosa prole.
Le piante ed i fiori coltivati dall’affetto dei superstiti sulle tombe dove riposavano i loro cari riuscirono così un emblema di onore, un argomento di gloria, un segno di amore, un tributo di gratitudine ed una testimonianza di affettuoso ricordo, e di perenne compianto.
In quale abbandono non si lasciano per contro al presente in pochi luoghi i mesti e solitarii asili della morte!”, non sono – in conclusione – più così attuali, ma lo sono le misure di sicurezza nei luoghi di lavoro e, si aggiunge, per non considerare altri fattori, in primis quello del carico psicologico del personale a contatto quotidiano con il lutto dei familiari e con la loro qualificazione ad un frequente, se non quotidiano, rapporto con i cadaveri, le loro trasformazioni e quanto ne rimanga, specie nell’esecuzione delle operazioni cimiteriali di esumazione o di estumulazione.