I “confini” normativi: principi generali e loro rimozioni

Nella versione consolidata del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la Parte sesta – Disposizioni Istituzionali e Finanziarie, Titolo I – Disposizioni Istituzionali, Capo 2 – Atti giuridici dell’Unione, procedure di adozione e altre disposizioni, la Sezione 1 – Atti giuridici dell’Unione si apre con l’art. 288:
Articolo 288 (ex articolo 249 del TCE)
Per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri.
Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.
La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi.
Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti.

Prendendo in esame le prime due tipologie di “atti” emerge una differenza, nel senso che la prima tipologia altro non è se non una norma di rango primario “direttamente” applicabile in ciascuno degli Stati membri, senza richiedere “recepimenti” o altri fattori per l’efficacia ed applicazione (in altre parole, questi “regolamenti” si collocano nell’ambito dell’art. 1, lett. a) delle Disposizioni sulla legge in generale (c.d. Preleggi) e non della successiva lett. b) e dei successivi artt. 3 e 4, per cui, nell’ambito del diritto dell’Unione europea il termine “regolamento” ha significato ben diverso da quello che ha nell’ambito del diritto interno italiano), mentre la seconda vincola per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi, comportando provvedimenti normativi nazionali di attuazione (c.d. recepimento).
Ne consegue, per la seconda, che la direttiva abbia contenuto uniforme, ma che le norme di attuazione possano risultare diverse da Stato membro a Stato membro. Per le “direttive”, a differenza dei “regolamenti”, viene ad operare un principio, che ci pare di valenza del tutto condivisa anche internazionalmente (cioè, non solo in ambito dell’Unione europea, ma a livello mondiale), per cui l’ambito dell’esercizio della potestà normativa (e, quindi, l’ambito di efficacia delle norme) corrisponde necessariamente a quello del territorio rispetto a cui sussiste una qualche sovranità, a volte estesa, altre volte delimitata per materie o altro.

Passando ora a considerare la situazione interna, non si può evitare di ricordare l’art. 114 Cost., per passare, senza per altro trascurare l’art. 116, all’art. 117 in cui è affrontato il tema della potestà normativa, distinguendo tra potestà legislativa e potestà regolamentare, osservando, come largamente noto, come i “confini” della ripartizione delle competenze (legislative), considerate dai commi 2, 3 e 4) tra “livelli di governo” siano non sempre nettamente individuabili (cosa che ha dato origine ad un’amplissima proliferazione nella giurisprudenza costituzionale).
A prescindere da quali siano, o possano essere, questi “confini”, cosa non sempre facile da definire, in particolare quando siano affrontati aspetti che importano la titolarità di diversi livelli, magari solo per cercare un qualche testo abbastanza gestibile, parrebbe che quel principio a valenza “mondiale”, cui è stato in precedenza fatto cenno, rimanga fermo, tanta è la sua ovvietà.
A questo punto occorre smentirci, poiché si è avuto, accanto a numerosi “sconfinamenti” dalle materie dell’art. 117, comma 3 a quelle elencate al comma 2, anche il caso di “superamento” (non troviamo un termine maggiormente adeguato) dell’ambito territoriale di efficacia delle norme, avendosi registrato (cosa avvenuta in una fase antecedente alla pandemia) norme legislative regionali in cui si disponeva che norme di una data regione producessero effetti anche al di fuori, magari prevedendone condizioni la cui verifica risulta ben oltre i limiti della probabilità (magari dopo 4 anni con “inviti” che ignorano come l’art. 129 Cost. sia stato abrogato).
Si tratta di disposizioni legislative che il Governo, in sede di avvalimento della facoltà attribuitagli dall’art. 127 Cost., non ha rilevato, avendo fatto piuttosto attenzione ad altri spetti di minore rilevanza.
Non possiamo dimenticare come, all’incirca 11 anni prima, la Provincia autonoma di Trento, avesse previsto, in materia di chiusura dei feretri, trattamento e trasporto delle salme una differenziazione rispetto a norme regolamentari nazionali, puntualizzando: “Nell’ambito del territorio provinciale…”, formulazione che congiungeva il principio con la propria competenza “autonoma” in materia.

Va detto che previsioni regionali spesso risultano poco efficienti, dal momento che vi sono attività, prestazioni e servizi, che solo a certe condizioni si esauriscono totalmente nell’ambito territoriale di una data regione, per cui i soggetti che professionalmente vi provvedano hanno l’esigenza di raffrontarsi, ed applicare, disposizioni uniformi, dove l’uniformità non è una lesione di una potestà normativa, ma la pre-condizione per assicurare prestazioni e servizi di qualità, in particolare per le persone che se ne avvalgano.
Né può chiedersi a costoro una conoscenza diffusa, e in particolare articolata (o, disarticolata?), così come altrettanto non può chiedersi a quanti abbiano, sulla carta, funzioni di vigilanza, una sorta di omniscienza estesa a tutti i diversi ambiti dei diversi “livelli di governo” (anche considerando come alcuni livelli di governo, non solo siano numerosi, ma anche dimensionalmente, e quindi organizzativamente, differenziati.
Si faccia l’esempio dei comuni che sono, circa 7-8.000 (con la diffusione dei provvedimenti di aggregazione tra comuni, diventa sempre più difficile essere aggiornati sul loro numero), con popolazioni che variano da quella di Roma e Milano fino a quella del comune con 33 abitanti.
Anche senza considerare i casi più estremi, già nei comuni sotto la soglia dei 1.000 abitanti (art. 3 L. 25 marzo 1993, n. 81 per cui: “Nessuna sottoscrizione è richiesta per la dichiarazione di presentazione delle liste nei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti) potremmo chiederci quale sia la dimensione organizzativa, considerando che i dipendenti comunali sono in media 7,2 ogni 1.000 abitanti (dati 2015) e che alla media concorrono profili professionali molto diversi e, quindi, magari anche con figure che svolgono funzioni non omogenee.
Alla luce di questi elementi, sembra non si possa pretendere, sempre e comunque, quella omniscienza che sarebbe utile, e necessaria per il buon andamento, incluso l’esercizio delle funzioni di vigilanza.
Certo, l’esigenza di disporre da parte degli operatori professionali di un quadro di riferimento uniforme e – per quanto possibile – chiaro e semplice, può trovare alcune soluzioni, ma ciò richiedere non solo che vi sia una conoscenza delle diverse problematiche, ma anche la rinuncia ad atteggiamenti in cui prevalga la condiscendenza a richieste di varia provenienza, ma anche di auto-centrismo, in cui il mondo di esaurirebbe in un qualche picciol horto.

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Sereno Scolaro

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