Fosse comuni, casse mortuarie ed inumazione

Le cosiddette “fosse comuni” sono più o meno considerate quali atti barbarici, tanto si è radicata la prassi di provvedere all’inumazione (che non guasta mai ricordare come sia, nell’attuale contesto giuridico, la pratica funeraria standard, di default o, altrimenti, quella normale cui fare riferimento ogni qualvolta di parli di sepoltura; se non se ne tenesse conto, deficiterebbero fattori di comprensione) dei corpi dei defunti previa collocazione (c.d. incassamento) in una cassa mortuaria.
Attorno allo scorso periodo natalizio, in relazione agli scontri nella Striscia di Gaza, si sono potute vedere operazioni in cui vi erano delle trincee scavate nel terreno, di una certa ampiezza e tale da poter essere percorse da bulldozers nella cui benna anteriore erano collocati sacchi di plastica blu che venivano rimossi uno ad uno, collocati sul fondo della trincea e quindi un po’ coperti di terreno.
Dato il contesto, questi sacchi di plastica erano inequivocabilmente individuabili quali body bags, più o meno prodotti “in casa”, portando alla conclusione per cui si trattava di operazioni di inumazioni senza utilizzo alcuno di casse mortuarie (e, quindi, di “fosse comuni”, anche se frequentemente questo termine sembra riferibile alle prassi che vedono un “ammucchiamento” di cadaveri, senza neppure la separazione, per quanto labile, data dai sacchi).
Va però ricordato come in alcune culture la prassi dell’inumazione senza l’impiego di casse mortuarie costituisca una pratica ordinaria, consuetudinaria, il ché attenua quel carattere “barbarico” che in genere permea il termine di “fosse comuni”.
Si tratta di una consuetudine che potrebbe essere scambiata per “precetto religioso” laddove queste consuetudini, queste tradizioni siano presenti in aree in cui siano presenti determinati culti (è un fenomeno per cui certe pratiche sono percepite come se fossero “precetti” e non “consuetudini”, equivocità spesso causata da scarsa conoscenza di quanto attenga all’una o all’altra categoria).
Pratica tanto ordinaria, sotto il profilo culturale, che il Punto 8), rubricato: “Usanze funebri in reparti speciali entro i cimiteri” della circolare del Ministero della sanità n. 10 del 31 luglio 1998, recita (al 3° periodo): “Per le professioni religiose che lo prevedano espressamente, è consentita la inumazione del cadavere avvolto unicamente in lenzuolo di cotone. Per il trasporto funebre è d’obbligo l’impiego della cassa di legno o, nei casi stabiliti, la duplice cassa, di legno e zinco”.
Anche qui, forse, si ha l’equivoco tra “precetti” e “consuetudini”, ma, comunque, è un segno di una sensibilità verso culture differenti. Andrebbe rilevato come lo strumento della “circolare”, in quanto “istruzione amministrativa” non abbia natura normativa, né possa determinare una deroga a norme, anche se di rango secondario (leggi: regolamentari), che regolino una data materia: si tratta pur sempre di un gesto di attenzione, magari nell’aspettativa, allora, di una revisione regolamentare, il cui iter era (si ripete, allora) in fase avanzata (processo successivamente interrottosi o, meglio, scientemente fatto interrompere).
Agli operatori del settore è largamente noto come la pratica funeraria dell’inumazione prescriva (artt. 74 e 75 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.) che essa comporti la “sepoltura” previa collocazione del cadavere in una cassa di legno, nonché la collocazione del feretro così confezionato in fossa separata dalle altre; in particolare l’art. 74, nella sua parte finale, prevede anche un’eccezione, cioè. “… soltanto madre e neonato, morti in concomitanza del parto, possono essere chiusi in una stessa cassa e sepolti in una stessa fossa.”, eccezione che talora viene estesa anche ad altre pratiche funebri, estensione improponibile, ma che sembra originare dalla superficialità di non distinguere tra le diverse pratiche funerarie presenti nell’ordinamento giuridico.
Anche qui, sia permesso, vi è la conseguenza di una rimozione della memoria (troppo spesso vi è una “memoria breve”) di alcuni aspetti.
Fino a circa 2-3 secoli addietro non vi era utilizzo delle casse mortuarie e, quando introdotte, la loro finalità iniziale era quella di “strumento” (“mezzo” ?) di trasporto per evitare un trasporto con altri “strumenti” o senza ricorso ad alcun “strumento”.
“Strumento” che, stante la finalità, era spesso riutilizzabile: si ricorda che (a cavallo tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 del secolo scorso?) la rivista “L’informatore FENIOF” ebbe a pubblicare fotografie di bare, conservate in un museo a Vienna, in cui il relativo fondo era apribile nel senso della lunghezza e dotato di specifica “ferramenta”, in modo che, giunti sopra la fossa, potesse prodursi l’apertura del fondo, così da consentire al cadavere di cadere all’interno della fossa.
Era evidente che in quelle situazioni neppure il concetto di fossa separata aveva sempre significato cogente. In fondo, date consuetudini non sono aliene, ma riflettono altre consuetudini, in alcuni contesti modificatesi.
Si tratta di un percorso che, nel tempo, si è modificato venendo alle impostazioni che attualmente vi appaiono così fisiologiche da far dimenticare quanto avvenisse in precedenza.
Questi due fattori (cassa mortuaria, fossa separata) sono il risultato della diffusione di “sensibilità” condivise che hanno portato alla prevalenza di 2 principi:
[a] individualità e
[b] individuabilità delle “sepolture”.
Rispetto al secondo di tali principi basti richiamare l’art. 70 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., e, per la tumulazione, il successivo art. 77, comma 2.
Si era detto che quelle ormai lontane consuetudini si sono modificate, evitando – intenzionalmente – di fare riferimento ad una qualche evoluzione, termine questo che parrebbe comportare un giudizio di valore, dal quale – intenzionalmente, per l’appunto – si vuole prescindere, nella convinzione che anche in materia di sepolture, cimiteri e dintorni.
Considerando pratiche funerarie non presenti, e meno ancora ammissibili, basterebbe pensare alle realtà in cui si pratica la sepoltura a cielo aperto, o nelle acque, che, secondo la sensibilità che si è così formata per successive stratificazioni potrebbero essere valutate come irrispettose dell’integrità dei cadaveri, ma che localmente sono percepite come … naturali.
Per chiudere, alleggerendo, si pensi al simbolo presente nelle bandiere dei pirati dei sec. XVI, XVII e XVIII (circa), quello col teschio e le due tibie incrociate (conosciuto come: Jolly Roger), che si richiama a prassi (che sembrano ancora presenti, per quanto poco, in contesti c.d. animisti) di inumare i cadaveri, non solo senza casse mortuarie, ma curando che le gambe venissero incrociate, con la presunta finalità che, laddove la persona defunta, “mutasse idea”, venisse ad inciampare, impedendo con ciò che il defunto ritornasse a danneggiare i familiari superstiti.

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Sereno Scolaro

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