In molte occasioni nella gestione della c.d. polizia mortuaria o, volendo, in quella cimiteriale, vi sono situazioni che comportano attività, anche amministrative, che possono assumere una criticità, magari per il fatto di apparire (sottolineiamo questo termine) ridondanti, forse poco produttive (rispetto al raggiungimento di un obiettivo forse necessitato), poco rispettose di un principio di proporzionalità tra i “mezzi” ed i “fini”.
Una delle situazioni di maggiore delicatezza può aversi, a titolo esemplificativo, in relazione alla fattispecie considerata all’art. 63 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., laddove posto (comma 1) un preciso obbligo, di natura tipicamente patrimoniale e di durata (riferita a quella della concessione cimiteriale), si individuano (comma 2) rimedi in caso di inadempienza, i quali non operano ex se, ma richiedono un procedimento che coinvolge le persone obbligatevi.
Non si tratta qui di mettere in discussione i poteri sussistenti in capo al comune (quale concedente in quanto titolare dell’assoggettamento al regime dei beni demaniali dei cimiteri), avendo presente anche l’art. 823, comma 2 C.C., quanto osservare adeguatamente i principi che richiedono le modalità di esercizio di tali poteri.
In una data situazione locale, un comune aveva proceduto alla dichiarazione di decadenza di una concessione cimiteriale su terreno in cui era stata eretta (1940) un’edicola funeraria, che, nel tempo, era venuta a trovarsi in condizioni di degrado ed abbandono, provvedendo (2014) ad affiggere specifici avvisi sul manufatto interessato e poco altro, non sembra (per quanto noto) che sia stato particolarmente osservato l’obbligo della diffida ai concessionari, anche se a mezzo delle c.d. pubbliche affissioni, oltretutto senza procedere ad adeguate ricerche, anche sulla base delle risultanze delle Anagrafi della popolazione residente, per individuare le persone che, al presente, fossero individuabili quali concessionari.
Gli elementi assunti come rilevanti sono stati, nei fatti, principalmente il tempo decorso (numerosi anni) tra l’avvio del procedimento e il provvedimento finale, quale sia stato, dato che gli “interessati” (volutamente, usiamo questo termine in luogo di concessionari) avevano avuto notizia dell’atto finale (2019), degli effetti conseguenti (2016) a questo (trasferimento di alcuni feretri in altri siti ai sensi dell’art. 86, commi 2 e ss. D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 o, quando ricorrente la condizione di cui al comma 5 della disposizione appena citata, al collocamento delle ossa nell’ossario comune. Per inciso, questo termine in cui gli “interessati” non hanno svolto attività di sorta sembra essere stato dovuto anche al fatto che costoro abitavano in comuni lontani e che non avevano legami o relazioni ancora “attive” con il comune de quo.
Ne è sorto un contenzioso in cui gli “interessati” hanno proposto ricorso al T.A.R. per ottenere, almeno, un risarcimento del danno c.d. biologico, ricorso accolto in prime cure, cui il comune ha ritenuto proporre appello, ricusato dal Consiglio di Stato.
Senza neppure richiamare i due provvedimenti (T.A.R. e, di seguito, Consiglio di Stato), si potrebbe considerare che il riconoscimento di un risarcimento possa anche essere valutato come fattispecie di danno erariale, con relativa responsabilità patrimoniale, ai sensi dell’art. 93 T.U.E.L., D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m., ma ciò poco rileva (come altrettanto poco rileva la quantificazione del risarcimento), poiché la vicenda si presta a considerazioni di portata più generale.
È tema su cui appare bene richiamare l’attenzione, nel senso che diventa – sempre – importante dare valore a quella che si può chiamare diligenza, ordinaria diligenza, anche quando questa possa apparire poco coerente con principi sostanziali di proporzionalità dell’azione amministrativa.
Certo, effettuare ricerche per individuare le persone “interessate”, cui riconoscere la qualificazione di concessionari, può essere un’operazione lunga, laboriosa e spesso anche dispersiva di risorse, sempre o almeno spesso, scarse.
Infatti, non si può disconoscere come quando una famiglia, a partire dal c.d. fondatore del sepolcro, abbia trasferito altrove i propri luoghi d’interesse (abitazione, attività, ecc.), trasferimento (spesso: trasferimenti in plurime e distinte localizzazioni) risulti anche abbastanza improbo individuare chi siano le persone da ricercare.
Utilizzando i dati (temporali) sopra esplicitati (desunti dalla pronuncia del Consiglio di Stato), è abbastanza facile dare conto di come le persone oggi “interessate” possano essere discendenti (per ragioni di semplicità consideriamo unicamente il fattore della discendenza dal fondatore del sepolcro) di alcuni gradi, probabilmente almeno tre o, forse, quattro.
Questo significa procedere a ricerche anche anagrafiche a partire dalle risultanze del regolare atto di concessione e risalire (o, scendere) ai discendenti di questi, valutandone i successivi trasferimenti, spesso plurimi e coinvolgenti una pluralità di comuni, cosa che richiede tempi non sempre … istantanei.
Qui si potrebbe considerare eventuali situazioni in cui il manufatto sepolcrale possa venirsi a trovare in condizioni di potenziale pericolo, specie nei confronti di terzi, ma – volutamente – evitiamo questa prospettiva emergenziale.
Ora, queste plurime ricerche possono anche dover fare i conti con la regolarità della tenuta, e conservazione, dei differenti atti rilevanti o semplicemente utili, che non sempre è uniforme (e regolare), ma vi è anche un aspetto che raramente viene considerato.
Infatti, vi sono realtà in cui lo stesso personale (diligente!) che dovrebbe provvedere a queste ricerche non dispone del know how necessario, non per motivi imputabili alle singole persone, quanto a mutamenti operativi, importanti.
Vi sono già persone che hanno raggiunto i requisiti per ottenere il riconoscimento della pensione di vecchiaia che non hanno avuto modo di effettuare ricerche sugli archivi storici pre-informatizzazione.
Il ricorso alle gestioni informatiche dei dati ha comportato profondi mutamenti nelle tecniche di ricerca, anche anagrafica, anche quando le relative registrazioni siano conservate con accuratezza.
Non parliamo neppure della capacità di leggere atti di concessione redatti manualmente, magari nel XIX sec. in cui il rischio di non riuscire a leggere o leggere lettere alfabetiche con un significato diverso da quello del tempo è altrettanto elevata.
La carenza di know how utile per le ricerche è un fattore scoraggiante che viene trascurato, forse perché non ancora resosi manifesto, ma che costituisce un’oggettiva difficoltà. Anche quando il personale addettovi sia di qualità.
La gestione cimiteriale non può sottrarsi da tenere conto anche di questi aspetti, cosa che non può non fare i conti con la struttura organizzativa dei singoli comuni, quale ne sia la consistenza.
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