Si rinvengono, qui o là, testi in cui si ritrova l’espressione di “convivente more uxorio”, in particolare, per quanto qui interessa, con riferimento al diritto d’uso nelle concessioni cimiteriali, considerando questa figura in qualche modo parificata a quella di “coniuge” ai fini della qualificazione di “appartenenza alla famiglia del concessionario” (art. 93, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.).
La questione non è di mero nominalismo, astratto o che riguarda pignolerie definitorie, ma in materia di diritti soggettivi, spesso di natura personale, talora anche personalissimi (qual è lo ius sepulchri), anche l’impiego di termini coerenti e corretti assume un rilievo non comprimibile.
Il termine “convivente more uxorio” era utilizzato, nel passato, per indicare situazioni di coabitazione tra persone, di norma di genere diverso (un tempo neppure si parlava e men che meno si prendevano, specie in testi normativi, in considerazione situazioni differenti), con caratteristiche avvicinabili alla coabitazione tra coniugi, quando mancasse il vincolo del matrimonio.
Vi erano (e sono) molte situazioni che vanno dalle c.d. convivenze prematrimoniali (fenomeno che è largamente cresciuto), alle coabitazioni tra persone che non possono contrarre matrimonio magari per il fatto di essere, uno od entrambi, astretti da vincoli matrimoniali con altre persone fino agli anziani pensionati, che contraevano (contraggono) matrimonio religioso (cattolico/concordatario, dato che le norme in materia considerano, eppure come eccezione, questa possibilità) senza farne produrre gli effetti civili, cosa che in contesti concordatario richiede un’autorizzazione ecclesiastica, allo scopo di non subire la revoca di una pensione ai superstiti (reversibilità) (o di entrambe).
Ad esempio, si potrebbe considerare come la Corte Costituzionale, con sentenza n. 237 del 18 novembre 1986, abbia dichiarata non fondata l’eccezione di legittimità costituzionale – per inciso, ciò non ha influenza sul fatto che il legislatore, successivamente (Cfr. infra sia intervenuto con norme di legge specifiche) della previsione dell’art. 307, comma 3 C.P. relativo alla non punibilità nel concorso di reato, in particolari reati), nella parte in cui non comprende nella nozione di “prossimo congiunto” la persona convivente more uxorio con l’imputato; in via più generale la questione della non punibilità è presente all’art. 384, comma 1 C.P. che, ancora, considera il “prossimo congiunto”, che trova una sua definizione nell’art. 307 (citato), comma 4 C.P., per il quale (quale modificato dall’art. 1, comma 1, lett. a) D. Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6): “Agli effetti della legge penale, s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole”.
Volendo potrebbe richiamarsi anche l’art. 574-ter, comma 2 C.P. Si evidenzia quel “agli effetti della legge penale”, dato che al di fuori non vi sono formulazioni definitorie specifiche, almeno di portata generale, anche se ve ne siano di “specializzate”; ad es., in plurime norme regionali in materia di edilizia residenziale pubblica, si trovano definizioni di “nucleo familiare” considerandone componenti anche il convivente more uxorio … purché la stabile convivenza … abbia avuto inizio due anni prima …. e sia dimostrata nelle forme di legge.
Questa categoria di norme risulta abbastanza omogenea, su questo punto, in quanto i legislatori regionali hanno tenuto presente indirizzi formulati dal C.E.R. nel 1985.
I richiami fatti paiono essere prossimi a questioni spesso affrontate quando si parla di diritto d’uso nelle concessioni cimiteriali, di appartenenza alla famiglia del concessionario e – ovviamente – alla conseguenza che sia adeguatamente, e chiaramente, individuato l’ambito di “appartenenza alla famiglia del concessionario”, individuazione che ha fonte – unica ed esclusiva – nel Regolamento comunale di polizia mortuaria. E siamo sempre nelle fonti “specializzate”.
Ora, la terminologia di “convivente more uxorio” (e i richiami precedenti evidenziano come abbia avuto un’evoluzione, tanto sociale che normativa) deve oramai cedere di fronte al fatto che il legislatore ha ritenuto di fornire una specifica, anzi due, regolazione alle situazioni che, un tempo, venivano ricondotte alla convivenza more uxorio, come situazione spesso de facto.
Infatti, si è in presenza di una terminologia non più attuale, né utilizzabile, dovendosi fare riferimento agli istituti presenti nella L. 20 maggio 2016, n. 76 (nonché al D. Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6 “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76”, già citato).
Ad esempio, si consideri l’art. 199, comma 3 C.P.P. in materia di facoltà di astensione dal deporre. Le due specifiche regolazioni introdotte dalla L. 20 maggio 2016, n. 76, riguardano i due istituti giuridici e, precisamente:
(A) l’unione civile tra persone dello stesso sesso e
(B) la convivenza di fatto,
osservando, rispetto a questo secondo istituto anche come esso abbia, oggi, una specifica definizione che non consente più leggerezze o promiscuità nell’uso di termini quali convivente, convivente di fatto, convivente more uxorio, coabitante e quanto altro.
Per questo appare imprescindibile che, quando vi sia occasione di interventi di modifiche, aggiustamenti o simili, relativamente al Regolamento comunale di polizia mortuaria vi sia cura di fare ricorso, ed impiegare unicamente, a termini corretti e coerenti con le norme, e definizioni, stabilite dalla legge, legge dello Stato, dal momento che le questioni qui affrontate attengono senza che vi siano equivoci o dubbi alla materia dell’”ordinamento civile”, rientrante nella competenza legislativa – esclusiva – dello Stato, alla luce dell’art. 117, comma 2, lett. l) Cost., da cui consegue che non possa darsi applicazione ad (eventuali) norme, siano esse legislative oppure regolamentari, regionali che non tengano conto di questi aspetti, li trascurino od ignorino.