Può accadere che vi siano interventi che comportano la necessità di operare, anche se, a stretto rigore, dovrebbero farlo altri, i c.d. interessati.
Vi sono infatti situazioni in cui chi dovrebbe, magari ex lege provvedere non lo faccia, indipendentemente se questa inattività sia volontaria oppure involontaria (a volte, magari, per il solo fatto di non avere conoscenza, notizia di quanto richieda di provvedere).
Ciò può accadere (e.g.) in ambito funebre, allorquando vi sia il c.d. recupero salma sulla pubblica via, disposto dalla pubblica autorità, oppure in ambito cimiteriale quando debba provvedersi alla “sepoltura” di persona per cui i familiari non dispongano alcunché, ipotesi che potrebbe anche sussistere quando chi debba disporre non abbia neppure notizia del decesso.
Sempre in ambito cimiteriale, si può avere il caso dell’inadempienza degli obblighi sorti con una concessione cimiteriale e considerati dall’art. 63 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., oppure il caso in cui, prima della scadenza di concessione cimiteriale e in prossimità di questa, le persone che abbiano titolo sulla concessione (non sempre e non necessariamente coincidenti con le persone che hanno titolo a disporre delle spoglie mortali) non provvedano a dare alle spoglie mortali accolte nel sepolcro altra destinazione, nonché alle opere ed interventi caso per caso necessari (es.: pulizia, sanificazione, rimozione di lapidi e/o iscrizioni, eventuali opere di ripristino, ecc.) affinché, intervenuta la scadenza della concessione cimiteriale, quel dato sepolcro possa essere oggetto di assegnazione a terzi.
In queste situazioni, il comune, o il soggetto gestore del cimitero (se questo servizio sia stato oggetto di affidamento), o l’azienda partecipata, in tutto od in parte, in via diretta od intermediata, può trovarsi nella condizione di dover affrontare l’applicazione di quanto previsto dal Titolo VI del Libro IV C.C., cioè dare corpo all’istituto denominato quale “gestione d’affari”.
La gestione d’affari
Probabilmente l’istituto risulterebbe più “leggibile” se la sua denominazione fosse integrata da un’indicazione ulteriore (es.: “altrui”, che, del resto, è esplicitamente presente), cioè se il suo testo fosse: “gestione d’affari altrui”, risultandone in tal modo meglio precisato che si tratta di interventi surrettizi, attuati de facto per superare lo stallo di una inerzia (non importa come causata) da parte di chi vi abbia un obbligo, sia questo di legge oppure sia “contrattuale” (non è a caso che il Titolo VI sia all’interno del Libro IV C.C., regolante le obbligazioni).
L’operatività “… senza esservi obbligato …“ (art. 2028 C.C.) significa proprio questo, cioè che il soggetto che agisce non lo fa in quanto tenutovi per legge o per contratto, ma anscientemente…” che richiama una componente di volontà, anche se, spesso, questa abbia a propria base una qualche necessità.
Ad esempio, quando vi sia un decesso, la “sepoltura” (usiamo questo termine per sottrarsi alle distinzioni tra pratiche funerarie) va comunque assicurata ed in termini temporali dati, indipendentemente se chi debba provvedervi agisca o sia noto o altro.
Una volta “avviato” questo intervento (l’affare altrui), consegue che esso vada “continuato”, cioè portato al suo buon fine, “continuazione” che va garantita fino a che la persona, o il soggetto, obbligato “,… non sia in grado di provvedervi da se stesso …”.
E qui va ricordato anche l’art. 2028, comma 2 C.C., che affronta la fattispecie in cui l’interessato muoia prima, caso nel quale l’obbligo si trasla, per effetto della successione, sugli eredi. Si osserva, per inciso, come in tal caso i termini temporali dell’intervento dell’erede possano risultare dilatati, quanto meno rispetto a tempi previsti, caso per caso, per far fronte alla necessità specifica.
Pare importante ricordare come (art. 2030 C.C.) il soggetto che agisce venga a trovarsi sottoposto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato: in pratica, l’assunzione, cosciente, di affari altrui senza averne l’obbligo opera come se vi fosse un mandato.
Inclusa la possibile regolazione delle situazioni che portino ad un qualche risarcimento del danno (anche se l’art. 2030, comma 2 C.C. prende in considerazione una qualche possibilità di moderazione di questi aspetti, richiedendo per altro un intervento giurisdizionale, volto eventualmente anche ad accertare la bona fide o lo stato di indifferibilità (o, di necessità oggettiva) in cui si sia venuto a trovare il soggetto gestore.
L’art. 2031 C.C., proprio partendo dall’obbligo del c.d. interessato, affronta la regolazione degli obblighi di questi, prevedendo che “…qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, l’interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunte in nome di lui (si ricorda l’equivalenza della gestione al mandato), deve tenere indenne il gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui le spese stesse sono state fatte.
Tralasciamo qui, intenzionalmente, la deroga presente all’art. 2031, comma 2 C.C., mentre interessa maggiormente l’istituto della “ratifica” (art. 2032 C.C.) da parte dell’interessato, la quale produce, relativamente alla gestione, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gerire un affare proprio.
Un cenno merita la previsione dell’art. 2031, comma 1 C.C., su quel “tenere indenne” e “rimborso” di “tutte le spese necessarie o utili con gli interessi”, affrontando una questione, forse anche marginale, delle ipotesi in cui le spese (necessarie o utili!) siano di modesto importo.
Infatti, tale questione porta a richiamare l’art. 25, comma 1 L. 27 dicembre 2002, n. 289, per cui: “Con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sono adottate ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, disposizioni relative alla disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria, applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, compresi gli enti pubblici economici..
Si tratta di una disposizione che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 30 del 26 gennaio 2005, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “… Nella parte in cui prevede che, con uno o più decreti, il Ministro dell’economia e delle finanze adotti disposizioni relative alla disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria, applicabili alle regioni …”.
In pratica, il vizio di costituzionalità ha riguardo all’attribuzione di competenze al M.E.F., ma non alla possibilità che una tale regolazione sia assunta da altri livelli di governo.
Ora, considerando l’art. 119, comma 1 Cost. pare ammissibile sostenere che il regolamento di contabilità dei comuni possa determinare la misura del “modesto ammontare” dei crediti oggetto di ripetizione, cosa che appare ragionevole, dal momento che talora gli oneri dei procedimenti di ripetizione, fino alla riscossione coattiva, se ed in quanto necessaria, possono/potrebbero essere superiori (o, non congrui) rispetto al credito de quo.
In fondo, ciò riporta alla previsione dell’art. 1, comma 1 L. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m., per cui: “ L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti , nonché dai principi dell’ordinamento comunitario.”.