Cremazione senza che vi sia atto di morte di coniuge premorto

Quando vi sia richiesta di rilascio dell’autorizzazione alla cremazione di persona che sia, anzi “appaia”, (ancora) coniugata è comprensibile come l’Ufficiale dello stato civile che debba dare applicazione all’art. 3, comma 1, lett. a) ed b), nei casi di cui al n. 3) di quest’ultima, non possa non considerare sufficiente, per quanto sia, in sé, necessaria, solo la documentazione considerata dalla lett. a).
Fino a qui, si tratta di pre-condizioni del tutto scontate. Infatti, il sopra citato n. 3) individua, in mancanza di volontà espressa, in vita, dalla persona defunta, una serie di persone legittimate ad esprime la volontà alla cremazione.
Non si entra nella questione se in tali casi la volontà sia quella (propria) dei familiari, oppure se costoro “rappresentino” una volontà (… qualsiasi altra espressione di volontà da parte del defunto …), su cui vi è stata un’interpretazione, in via amministrativa, che cozza con il tenore letterale della norma, non trascurando neppure l’art. 79, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., per questo aspetto coerente con l’attuale n. 3).
Questo per il fatto che non mancano casi in cui emerga che la persona per cui è richiesto il rilascio dell’autorizzazione alla cremazione risulti, per tabulas, cioè dalle registrazioni di stato civile e di anagrafe della popolazione residente, quale coniugata con altra persona.
Questa situazione è rilevante, poiché essendovi (sulla carta) un coniuge, questo ultimo prevale, ed esclude, la titolarità dei parenti nel grado più prossimo.
Tralasciando il caso accidentale che questo coniuge “ancora apparente tale” sia deceduto abbastanza recentemente per cui possono aversi registrazioni non ancora aggiornate, spesso queste situazioni possono aversi quando il decesso dell’altro coniuge, premorto, sia avvenuto all’estero e non siano stati adempiuti, o non ancora adempiuti, gli obblighi di trascrizione dell’atto di morte.

Un caso particolare non riguarda questi fenomeni di inadempienza o semplice ritardo, ma una posizione soggettiva specifica.
Per semplicità espositiva, si consideri che il comune di decesso e residenza sia della persona defunta, dell’altro coniuge (premorto), nonché dei parenti nel grado più prossimo coincidano e, amplificando la semplicità espositiva (questa volta, strumentalmente), che i “parenti nel grado più prossimo” non siano una pluralità (cosa che il n. 3) regola, ma che si tratti di un unico parente, diciamo una/un figlia/o (cioè, parente in linea retta discendente di 1° grado), che, aderendo alla volontà informalmente espressa dalla persona ora defunta, nonché per propria scelta, richiede il rilascio dell’autorizzazione alla cremazione.
L’altro coniuge, che dalle registrazioni amministrative risulterebbe tuttora in vita, era anche israeliano, in possesso della cittadinanza italiana (non rilevano qui le motivazioni giuridiche sottostanti), trasferitosi in Israele, dove è deceduto, tanto che l’unica/o figlia/o si era recata in quello Stato in prossimità del decesso, aveva partecipato ai riti esequiali locali e presenziato alla sepoltura, disponendo ora anche di fotografie della sepoltura, con evidenti iscrizioni, per quanto redatte in lingua e caratteri ebraici.
Ma una foto non prova la morte, come un atto di morte regolarmente trascritto (trattandosi di cittadino italiano).
Tale parente nel grado più prossimo ha preso contatto con la rappresentanza diplomatica/consolare italiana in Israele ottenendo la risposta di non poter rilasciare certificazione a chi non sia israeliano (sic! – forse, potrebbe essere il contrario).
Probabilmente, la questione sorge per il fatto che, con altissime probabilità, il marito era sì italiano, ma anche israeliano. Se fosse stato unicamente italiano, si potrebbe fare rinvio all’art. 15 (in particolare, comma 2) D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.

Ma se in possesso, anche della cittadinanza israeliana, le indicazioni (un po’ grossolane, ma forse si tratta di capire che si siano detti tra l’interessata e l’autorità diplomatica/consolare italiana) potrebbero essere causate dal fatto che le leggi locali escludano (o, semplicemente, non prevedano) che atti di stato civile dei propri cittadini siano oggetto di trasmissione ad autorità estere.
Da un lato potrebbe essere presente, nelle leggi locali, la semplice non previsione di non trasmissione; del resto, anche le norme italiane va in questa linea.
Considera l’art. 83 citato D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m. che riguarda la morte in Italia dello straniero, ma un cittadino italiano che abbia, anche, altra cittadinanza, è, per la legge italiana, trattato unicamente come italiano (e la condizione di straniero non è presa in considerazione).
Non va esclusa l’ipotesi che lo Stato di decesso (e anche di cittadinanza) escluda, o faccia divieto, di trasmettere ad autorità straniere atti dei propri cittadini. In tal caso, di potrebbero essere 2 soluzioni:
A) applicazione dell’art. 20 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.,
B) la persona interessata potrebbe richiedere alle autorità israeliane, in quanto figlia/o, atto (o certificazione che, comunque denominata, sia quanto più possibile prossima al concetto di “estratto per copia integrale dell’atto di morte”), farlo munire di legalizzazione e di traduzione in forma ufficiale e, a questo punto,
B.1) inoltrarlo all’autorità diplomatica/consolare italiana in Israele chiedendo, espressamente, l’inoltro in Italia ai fini della sua trascrizione nel comune di ultima residenza in Italia, oppure
B.2) richiedere direttamente all’Ufficiale dello stato civile la trascrizione (quest’ultima possibilità non sarebbe ammessa, ma risulta che molti ufficiali dello stato civile la pratichino, di fatto).
Per altro, sulla questione legalizzazione risulta che Israele faccia parte della Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961 che abolisce i requisiti o della legalizzazione degli atti pubblici stranieri (sostituendola con l’istituto dell’“apostille”).
A questa URL sono indicate quali siano le autorità israeliane competenti per la apposizione dell’”apostille”.
Ovviamente, prima occorre acquisire il documento presso le autorità locali del luogo di decesso. Per la traduzione in forma ufficiale, si fa rinvio all’art. 20 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.

Oltre alle indicazioni precedenti, potrebbe anche farsi applicazione dell’art. 46 (R), comma 1, lett. h) D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e s.m. (dichiarazione sostitutiva di certificazione).
Per altro, si potrebbe anche comprendere se l’Ufficiale dello stato civile ritenga non percorribile questa modalità di prova, a motivo della irreversibilità propria della cremazione.
Ma questa (umana) comprensione dovrebbe scemare se si abbia presente, in primis, quanto dispone l’art. 73 (L) citato D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e s.m. sull’assenza di responsabilità da parte della pubblica amministrazione, e, in secundis, ma di maggiore rilievo ed efficacia, il successivo art. 74 (L-R) che qualifica quale “violazione dei doveri d’ufficio la mancata accettazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà rese a norma delle disposizioni del presente testo unico (L)”.
Anche se la cremazione sia una pratica funeraria irreversibile, queste ultime disposizioni non sembrano potersi rimuovere.

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Sereno Scolaro

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