L’autore del celebre Clown triste, scomparso nell’ottobre del ’99 ha saputo dominare sino all’ultimo istante il suo particolare rapporto con l’ossuto angelo nero.
Proprio all’incontro con la morte ha consacrato i suoi ultimi mesi con dedizione quasi maniacale, dipingendo 24 superbe tele.
Avversato dalla critica ufficiale, sempre insolentita dalle sue intelligenti provocazioni, ma apprezzato dal grande pubblico, Bernard Buffet è considerato un genio della pittura dalla sterminata schiera dei suoi ammiratori.
In ogni caso, si tratta di un autore che non lascia certo indifferenti, si può odiarlo oppure amarlo disperatamente ma di lui certo non ci si può dimenticare.
Sin dall’entrata nella mostra a lui dedicata, il suo stile cosi diretto e viscerale sconvolge lo spettatore.
Sulle pareti, ricoperte con tendaggi grigi, quasi fossero drappi funebri, appaiono in ogni angolo della sala imponenti quadri dove, con schiettezza crassa, efferata, viene rappresentata la morte.
È impossibile, camminando nella galleria dell’esposizione, non avvertire quest’inquietante presenza, perché si è avvolti in un silenzio irreale, rotto solo da qualche sussurro.
Immersi in questa atmosfera di sgomento funereo scorgiamo su ciascun pezzo della collezione giganteschi scheletri che incombono sui visitatori, con la loro sinistra espressione, arcigna e proterva.
L’effetto scenico è sorprendente, assieme al primo impatto con questi quadri, eccessivi e feroci, quasi orrorifici.
Colpiscono soprattutto i tratti dei teschi, rappresentati con una violenza volutamente illetterata e stradaiola, col sapore bieco dello sghignazzo greve ad illustrare la desolazione.
L’uomo per secoli, quando ha cercato di pensare ad un volto per la morte, ha raffigurato un ghigno scarnificato dai colori pallidi, magari paludato da un ampio cappuccio.
Buffet, al contrario, mostra la nera signora, ritratta in un vortice di colori con grandi denti bianchi che si contrappongono al desolante buio delle orbite cave; oppure la immagina vestita con ricchi paramenti, magari attorniata dal volo spensierato di gazze, merli o usignoli, come se fossero ombre che danzano in un irreale ballo. La sua poesia visiva scandisce immagini dure e malinconiche nella loro cadenza rabbiosa ed ossessiva.
Con questa sublime produzione l’autore si erge ad aedo di una generazione disillusa e sconvolta dalle tragedie del Novecento.
La sua arte, incattivita e tenera insieme, si rivolge ad un pubblico smaliziato, che è ormai abituato a nutrirsi di trasgressione e spericolatezze stilistiche non per eccesso di ardimento, ma per difetto di speranza.
In relazione alle forme astratte dominanti nella nostra epoca postmoderna, il grande pittore francese predilige, invece, una pittura essenzialmente decorativa, con figure spettrali testimoni di un mondo triste e sprofondato nella solitudine.
Le sue linee così ruvide da annullare persino il naturale sviluppo dei volumi ed i passaggi chiaroscurali di piano, dipingono una sorta di deserto esistenziale dove s’aggirano gli inquietanti fantasmi poetici che popolano il nostro inconscio.
Il pessimismo, allora, è espresso attraverso una completa mancanza di momenti curvilinei, capaci di accentuare questo senso drammatico, nell’opera di Buffet convivono, così, sogghigni maledetti e disperati, gesti di sfida irridente, ed angelico candore.
In questo lucido testamento spirituale l’autore non si è ispirato ad un testo letterario, oppure ad un paesaggio, si è lasciato trascinare solo dal suo talento, ascetico e visionario, per realizzare questa imponente danza macabra.
La sua grande forza comunicativa, proprio perché capace di suscitare intense emozioni, declina un linguaggio pittorico ellittico e percussivo, dove al messaggio di ordine razionale si sostituisce una formula intuitiva ed ermetica.
In realtà, se osserviamo intensamente questi quadri scopriamo come dietro la maschera di teschio si nascondano gli sguardi intensi ed i visi di persone vive che ci interrogano nella loro enigmatica identità.
Buffet, con questa produzione, diventa coscienza critica del nostro tempo, perché è testimone di un secolo “breve” (Hobsbawm) dove si sono consumati soprusi e barbarie inenarrabili; per lui la pittura non è solo un’espressione artistica, il suo lavoro, infatti, sconfina nella fede, perché diventa la dimensione perfetta in cui incontrare l’assoluto.
La sua esperienza artistica si eleva così a metafora esistenziale, è la consapevolezza del tragico immedicabile su cui la vita si fonda; dipinti che trasudano di una crudeltà dolce, rassegnata, non sono altro se non l’amara riflessione di un animo straordinariamente sensibile su quell’icona di morte che ogni giorno aleggia su di noi.
Scheletri in pose sbracate ed irriverenti, che ostentano, senza pudore, viscere ed organi ancora pulsanti, allora, diventano, in un codice semantico così allusivo e paradossale, un appassionata difesa della vita, sostenuta da una profonda fiducia nell’azione salvifica di Dio e nella Sua infinita potenza, su cui si regge l’ intero universo.
Questa imponente serie di dipinti non è, quindi, dettata da un sadico piacere nichilista, è piuttosto una forte denuncia verso il male metafisico che domina la storia; diventa una sorta di manifesto culturale, che ci invita a resistere, a non lasciarci mai soggiogare dal potere della morte.