Arte nata da un raggio e da un veleno (A. Boito)
Da sempre i morti suscitano angoscia e paura, ma nello stesso tempo la loro visione solleva un’inspiegabile e morbosa curiosità.
Ritrarre con una macchina fotografica, e non con le tradizionali tecniche di pittura, quell’enigmatica maschera di tragica serenità che si modella sul volto dei defunti, era, nel corso XIX secolo, un’occasione memorabile, perché si presentava come una straordinaria sfida per una nuova e trasgressiva forma d’arte.
La foto è, infatti, come scena surreale; la rappresentazione fittizia, su di una pellicola, di un volto truccato o di una posa artificiosa, irrigiditi nell’eternità di un istante, non può essere che la negazione figurata di un’ossessione di morte.
Sotto quella leggera maschera di maquillage o dietro quell’espressione artefatta possiamo, infatti, intravedere il pallore esangue dell’ossuto fantasma ammantato di nero.
È per questa sottile intuizione, spiega Calvino, come la realtà fotografata assuma subito un senso nostalgico, di gioia svanita sull’ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto scattata appena qualche giorno fa “[…] E la vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di sé stessa”, commenta il grande autore.
La semplice luce del cielo aperto ha una meravigliosa forza. Mentre noi crediamo che dipinga soltanto la mera superficie, essa, in realtà, lascia emergere il carattere segreto con una veridicità che nessun pittore oserebbe riprodurre, se pure sapesse scoprirla.
I risultati per un oggetto di ricerca così scabroso si caricarono di tensione e di un’importanza che sono progressivamente andate scemando nel corso del ventesimo secolo, dopo che la fotografia ha cessato di rappresentare una novità.
Un’immagine impressa su pellicola fotosensibile della propria effige, anche dopo la morte, nell’800 era la precisa espressione di una marcata identità e conservava in sé un intrinseco valore artistico.
Nel sapiente velo di trucco steso delle guance per nascondere quel trascolorare livido che le avrebbe deturpate, il ruolo del fotografo per certi aspetti anticipò l’azione del tanatoprattore, in quanto ricorreva ad espedienti come i cosmetici ed usava il colore per ristabilire l’ apparenza di vita.
I due ruoli sono tra loro simili, anche perché – in senso più generale – scattare una foto ad un defunto corrispondeva ad un’imbalsamazione, anche se solo dell’immagine una conservazione del corpo per lo sguardo fisso dell’osservatore.
Entrambi gli atti sono significativi di una forzata negazione della morte.
Nella maggior parte dei casi, infatti, il fotografo giungeva dopo una rudimentale tolettatura ed un’affrettata deposizione della salma nel cofano.
Nella prima metà del secolo, questa operazione era compiuta dalla famiglia, particolarmente nelle zone rurali.
Gli allestimenti ed i preparativi per la veglia sul defunto erano solitamente semplici. Solo verso la fine del secolo, un simile delicato compito fu affidato a veri professionisti dell’estetica mortuaria, nacquero così le prime forme organizzate di onoranze funebri. Le coreografie esequiali divennero allora più elaborate, anche con la complicità degli stessi fotografi che riprendevano i loro soggetti come se fossero solo placidamente addormentati, forse per rendere nella memoria di chi sopravvive meno doloroso il ricordo evanescente di quanti hanno già lasciato questo mondo. C’era, in tutta questa maniacale cura per il dettaglio, qualche vaga implicazione necrofila ed allo stesso tempo di struggente romanticismo, come accade per chi non è più in grado di ottenere o trattenere per sé, nella realtà, l’oggetto del desiderio e lo possiede da morto, anche se impresso solo su di una pellicola, per non sentirsi rinfacciare la propria sostanziale impotenza dinnanzi al destino.
Il concetto della morte come sonno ha, però, nella storia un corso estremamente lungo. Compare nel mondo classico in Omero ed in Virgilio, persino nella liturgia cristiano medioevale e nei formulari ancora in uso presso le diverse confessioni.
Ancora oggi si invoca costantemente la pace eterna per i defunti. Quale significato avrebbe altrimenti l’augurio di riposare per sempre nella luce, rivolto alla salme nelle preci durante le esequie?
Inconsciamente si teme allora che l’anima, dopo la dipartita terrena precipiti in un limbo di affanni o peggio ancora nel vuoto angosciante della dannazione?
Qualcuno, invece, che si sia solo addormentato può, dopo tutto, ancora svegliarsi, anche se soltanto nei sogni o nelle fantasie dei vivi.
Alcune fotografie, al contrario differiscono dai primi, vellutati esempi di questa insolita forma di arte ritraendo con realismo la morte nella sua tragica brutalità.
Proprio in questo periodo la fotocamera irrompe nelle sale autoptiche e negli obitori per raccontarci quei particolari tragicamente veri che anche oggi popolano le pagine della cronaca nera.
Questa funzione della fotografia quale status symbol fu avvertita soprattutto in America, una nazione che subì, proprio attorno al XIX secolo, un profondo processo di ridefinizione sociale ed nel quale un individualismo di massa ha assunto tratti sempre più marcati come segno di una spiccata identità nazionale.
Da una prospettiva sociologica, d’altra parte, il dolore è un concetto da sempre incluso in ogni cultura. In quest’ottica, un sentimento di cordoglio così ostentato nel diciannovesimo secolo America è spiegabile anche dal fatto che la società stava subendo una transizione tumultuosa, trascorrendo rapidamente da un sistema di famiglia patriarcale ad un assetto sempre più disgregato, fondato su piccoli nuclei.
In questo microcosmo della borghesia americana si creano stretti legami di dipendenza ed identificazione; quindi, la perdita di una persona diviene un danno irreparabile. La fotografia delle spoglie mortali di un famigliare testimoniava visivamente la irreversibile perdita d’un individuo, e fu investita di un valore affettivo e simbolico ben superiore rispetto all’ordinaria immagine realizzata per ricordo con le tradizionali tecniche della pittura.
Come raffinato articolo d’èlite, una fotografia “post mortem” era più costosa, a volte il suo prezzo era considerevolmente più esoso rispetto ad un normale ritratto su pellicola, in parte, perché il fotografo stesso doveva imparare a relazionarsi con l’insolito soggetto della sua opera, cogliendone la desolata, ma al tempo stesso intrigante, passività.
I fotografi, però, quali astuti uomini d’affari, richiedevano compensi particolarmente alti anche perché, forse per primi, avevano intuito l’enorme potenziale del mercato americano attorno al “caro estinto”.
L’uomo dunque ricorre soprattutto alla fotografia per donare consistenza e realtà ad una dimensione troppo effimera e troppo labile, per sottrarla, come dice Calvino, all’“ombra insicura del ricordo” con un fragile e malinconico sentore di un passato che non torna, come fosse testimonianza e rovina di un tempo che non c’è più.
La fotografia, però, con il suo ambiguo ed indefinito giuoco di morte e resurrezione, secondo alcune scuole di psicanalisi creerebbe nella psiche l’incapacità di elaborare il lutto con la sua illusoria promessa di immortalità.
Immortalare le sembianze del morto prima della definitiva sepoltura, per custodirne, attraverso l’immagine, la memoria, secondo un rituale che reca un inevitabile senso di tetra vanità è una tradizione, comunque, oggi pressoché scomparsa nella nostra cultura.
Se ragioniamo sulle comuni foto dei morti, possiamo pensare più semplicemente alle sbiadite immagini che vorrebbero ricordare i nostri defunti come vivi, nei cimiteri, nei vecchi salotti, o nei polverosi album di famiglia, questi tristi ritratti non suscitano più la magica idea del nascosto e del segreto, ma solo una cupa, rassegnata nostalgia.