Arte Macabra…ovvero l’arte del riciclo dei resti umani

L’arte macabra, forse, è la forma estrema e più oscura della pur sublime tecnica di saper riciclare i materiali costruttivi.
In Europa, durante il solare periodo del rinascimento, quando la cultura riscoprì l’equilibrio delle opere classiche, si affermò, per converso, anche un certo gusto diabolico e morboso verso temi funerei e soggetti mortiferi.
Molto tempo prima che il nobile concetto di donare i propri organi s’imponesse come scelta responsabile nel dibattito culturale, il genio perverso di autori maledetti, proprio perché votati al peccato della trasgressione stilistica, inventò un nuovo ruolo teatrale ed eccessivo [1] per quegli imbarazzanti cadaveri che invadevano le cripte delle cattedrali, quando orride ghirlande di ossa o scheletri furono abbondantemente impiegati quali bizzarri motivi ornamentali.

Una tra le più tetre e maestose cappelle, ricavate da quella fitta trama d’ossa umane, capace di plasmare i volumi e disegnare con le proprie spire soffocanti le geometrie certe dell’architettura, si trova nella città portoghese di Evora, nel complesso monastico presso la basilica di San Francesco.
Realizzato dai monaci francescani tra il 1460 ed il 1510, il sacro edificio si regge sull’intreccio plastico e spettacolare di un’imponente struttura, quasi ricamata, grazie alla laboriosa torsione delle linee e ai vorticosi passaggi di piano dalle mille sfaccettature.
Quest’insolito telaio, dove mano forse non umana ha tessuto le sue immagini di morte, grazie a milioni di variazioni prospettiche, è stato ricavato dalla combinazione eclettica, multiforme delle ossa appartenute a circa 5000 defunti, sepolti nelle celle sotterranee del monastero.

Già all’entrata, si avverte una sensazione sinistra, oppressiva; ci si sente osservati, forse anche spiati dalle orbite cave di quei teschi incastonati nella pietra dei muri.
Appena varcata la soglia del tempio i visitatori possono apprezzare la spettrale ironia, che sembra spirare con un sibilo sulfureo da quelle migliaia di miseri scheletri prima smembrati con infinita pazienza, poi ridotti ad orrida architettura.
Per avvertire quell’orizzonte di tenebra, in cui la cappella è immersa, basta solo orientare lo sguardo verso un’agghiacciante iscrizione, su cui è impresso un lugubre monito intinto di lutto.
Il memento mori riporta queste drammatiche parole scandite con il ritmo percussivo della danza dei morti “Qui le nostre ossa attendono le vostre”.

All’interno, la navata è solo debolmente illuminata da una fioca luce, i raggi di un sole crepuscolare filtra dal piano finestrato.
Serve solo qualche istante per capacitarsi di come il paramento lapideo, che delimita le campate, ed i pilastri, su cui si reggono gli archi d’imposta per disegnare le coperture ricurve dei soffitti, siano interamente ottenuti con una massa compatta di tibie disposte in modo impeccabile, assieme ad altre ossa lunghe e crani.
La morte dilaga nella navata e sguaiata dipana la sua corona di teschi, come se si trattasse di un rosario nero per celebrare la liturgia del male.
Una muraglia di ossa incastonate tra loro con precisione sovrannaturale delimita l’inviolabilità dello spazio sacro.
Una volta superato l’iniziale sgomento per questa terrificante visione, il turista comincia ad apprezzare lo spettacolo surreale e grottesco, a tratti persino comico con centinaia di teschi impilati e sovrapposti assieme a molli trecce, ricavate da mandibole, che risalgono le pareti in vertiginosa ascesa sino ad orlare, con armoniosi movimenti curvilinei le nervature delle volte.

L’illusorio effetto ottico di chiaroscuro è notevole ed è, principalmente, dovuto all’intersecarsi delle diverse traiettorie tra i moduli costruttivi: le vele del soffitto, infatti, si dipartono precise e nette dalla chiave di volta, mentre i festoni che le orlano seguono profili meno tesi e si stendono sinuosi sui raccordi murari tra le volte stesse e le pareti laterali, aumentando la profondità dei già generosi volumi.
Disegni artistici si sviluppano sullo sfondo e contribuiscono a questa curiosa sintesi quasi barocca tra elementi orrorifici e temi sacri: alcuni cherubini dai biondi capelli ricci sembrano librarsi in un fantastico volo ad di sotto della cappa perlacea di crani ed ossa, impercettibilmente fissati a croci, gli spigolosi assi di quest’ultime sono dipinti ed avvolti, grazie ad una raffinata illusione ottica da girali voluttuosi, da eleganti festoni floreali.
L’effige del Cristo ed un altare, impreziosito da sfarzose dorature, sono quasi celati alla contemplazione dei fedeli dal più raccapricciante addobbo cadaverico della piccola chiesa.
Due carcasse umane raggrinzite e polverose, infatti, sono appese ad un longitudinale, rispetto all’orientamento della cappella, e stendono la loro ombra malefica dagli indefiniti contorni sul presbiterio.
Si tratta dei corpi mummificati di un uomo adulto e di un fanciullo, le fattezze dei volti ormai dovrebbero essere dilavate dall’ingiuria del tempo, invece sembrano stranamente scolpite in quel velo di carta pecora che inspiegabilmente li ha imprigionati, preservandoli dalla putredine.

Queste due salme senza tempo, cui un triste destino negò il riposo eterno in una tomba, riescono molto difficili da datare, alcuni rilevamenti, però, parlano di un’epoca compresa tra il XV ed il XVI secolo, quando indicativamente fu costruita la chiesa.
Quei miseri brandelli di pelle brunastra, rugosa e secca come il cuoio, assieme ai pochi stracci sfilacciati dei vestiti, che ancora li ricoprono pudicamente, per uno strano giuoco di rimandi ed involontarie simmetrie si attagliano con precisione sconcertante, ed in modo quasi diabolico, a quella scena teatrale granguignolesca1, esasperata e quasi patetica cui sono inchiodati, come crocefissi, in una blasfema parodia del Calvario, da centinaia d’anni.
Secondo un racconto popolare, molto diffuso anche tra gli operatori turistici, il cadavere inchiodato al muro d’ossa apparteneva ad un uomo violento e prevaricatore, costui, in vita, aveva abusato di molte donne indifese ed anche suo figlio, nei confronti della madre, rivelava disprezzo ed un malanimo crescente, sempre più difficile da mascherare.
Lo sconsiderato, in una sera di particolare ferocia bestiale, percosse la sua sposa, la colpì ripetutamente con cieco furore assassino, sino a condurla alla morte fra atroci sofferenze e gagliarde sferzate.
La donna, prima di soccombere tra lividi e grida lancinanti, lanciò una spietata maledizione contro il sadico marito ed il figlio indegno, il bambino, infatti, era già corrotto dallo spirito del male, nonostante l’ancor tenera età.
Lei stessa si sarebbe trascinata appresso nella fossa quei due orchi malvagi che Iddio le aveva assegnato come marito e figlio, perché non rimanesse traccia di simile perfidia nel mondo dei vivi, ma siccome erano così crudeli e demoniaci nemmeno le immani fauci dell’inferno, sempre ingorde di nuove anime, li avrebbero accolti nelle profondità del suolo, là nella città dolente dei dannati.

Come la sventurata donna aveva predetto nella sua terribile profezia di morte, pochi giorni dopo padre e figlio spirarono misteriosamente.
Al momento della sepoltura la terra fangosa del campo santo, inorridita, alla sola idea di ospitare quelle due salme maledette nel proprio grembo, si contrasse per lo sdegno, sino a divenir dura e compatta come la roccia; così gli affossatori stremati desistettero dall’impresa e le fosse non poterono esser scavate.
I monaci, allora, pietosamente, si occuparono di quei due cadaveri, perché non rimanessero in balia della folla o dei cani randagi.
Appesero dunque quei cadaveri all’interno della loro cappella cimiteriale, perché rimanessero per sempre esposti alla commiserazione della gente, quale tragico avvertimento contro nuovi personaggi brutali e prepotenti, così come si usava fare con banditi e delinquenti che rimanevano impiccati alla forca anche diversi giorni, come sanguinario esempio per i fuorilegge.
Vero o meno, anche se in tutte le leggende c’è sempre un prezioso frammento di reale sapienza, quest’aneddoto dimostra come i monaci francescani sapessero riconoscere e riservare grande dignità e valore al mondo femminile, tanti secoli prima delle battaglie politiche per i diritti civili.
In riconoscenza per quest’antica e cristiana attenzione verso le donne, le ragazze del luogo, quando decidono di maritarsi, tagliano i lunghi capelli per sistemare le tracce annodate all’entrata della cappella.
Con questo desto rituale di rinascita a nuova vita le nubende [2] offrono in simbolico sacrificio la loro spensierata vita da adolescenti, periodo, appunto, contraddistinto da ricercate pettinature, per impetrare la grazia divina di un matrimonio felice.
Quest’usanza è ancora molto sentita, come confermano le tante trecce ad ornamento del portale che sembrano introdurci, ancora una volta, nei segreti nella chiesa d’ossa.


[1] Il grand guignol era un genere teatrale molto diffuso in Francia, sul palcoscenico si rappresentavano con un certo compiacimento scene macabre e racconti truci per solleticare il gusto dell’orrido nel pubblico, spesso di estrazione popolare.
[2] Le nubende erano solo le ragazze in procinto di contrarre matrimonio.

Written by:

Carlo Ballotta

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