La chiesa cimiteriale di Santo Stefano di Carisolo (TN)

Già parrocchia di Carisolo, quando il borgo si trovava spostato verso l’imbocco della Val Genova, S. Stefano rimase solo una pieve cimiteriale dopo la costruzione dell’attuale edificio parrocchiale dedicata a S. Nicolò nel 1751.
Sorge su di un possente macigno circondato da fitti boschi e alberi secolari.
Il suo asse longitudinale si colloca di sghembo rispetto al naturale sviluppo dello sperone roccioso su cui è addossata, da un lato, per circa due metri, che le fa anche da fondamenta.
Sul versante opposto, dove il monte declina, è stata sistemata una scala d’accesso incorniciata da una superbo arco, interamente, dipinto.
In quest’angusta area si apre, però, lo spazio sufficiente per accogliere una zona sottostante, quasi sprofondata nella roccia, dove ricavare un ambiente con funzione di cripta-sacrestia.
L’ingresso di questa zona è impreziosito da una seconda arcata.
La complessa storia architettonica e decorativa di Santo Stefano si perde nel mistero delle sue remote origini, mentre si delinea abbastanza chiaramente solo negli anni del basso Medioevo.
La prima testimonianza certa, relativa alla chiesa, è un documento del 1244 che ne attribuisce la proprietà a un collegio di chierici.
Santo Stefano, presenta una facciata “a capanna” austera ed essenziale, realizzata in pietra grigia e si caratterizza per un tetto fortemente spiovente, tipico dell’architettura nordica.
Grazie alla sua forma slanciata domina su di un piccolo, ma suggestivo, sepolcreto.
Il cimitero è circondato da un basso muro con cancellata in ferro.
I monumenti tombali di questo sacro recinto, in semplice legno o in pregiato marmo bianco, sempre finemente decorati, sono da tempo meta di visita e riflessione per molti turisti.
La critica individua tre distinte fasi di interventi che, nel corso dei secoli, condussero alla costruzione della chiesa.
La parte più antica è la porzione di una precedente cappella, ora interamente compresa dalla parete sinistra. Questa sezione si presenta sopraelevata rispetto al livello del pavimento e dimostra una struttura squisitamente romanica.
È databile, con una certa approssimazione, attorno al XIII o XIV secolo; si consideri, infatti il ritardo stilistico nei paesi montani del Nord, che consente al romanico di imporsi fino al ‘300 e al gotico fino al ‘500. Si può agevolmente notare come la disposizione di questa chiesa primitiva fosse simile al consueto orientamento della basiliche paleocristiane e medioevali, con l’altare rivolto verso nord-est, o, più normalmente, a est.
Questa scelta spaziale si caricava di un forte significato metaforico: Cristo, che si rende presente sull’altare durante la divina liturgia, è il vero sole che sorge a illuminare il mondo immerso nel buio del peccato. L’arcone ravvisabile esternamente, lungo la fiancata di nord-est sarebbe assimilabile all’antico arco trionfale. Dello stesso stile è la torre campanaria.
Il secondo momento costruttivo, quattrocentesco, modifica la collocazione fisica della chiesa nel senso attuale, ovvero verso aggiungendo anche l’abside, ma conserva il portale d’ingresso a monte, dalla parte di quel costone da cui su cui, tutt’oggi, svettano tre croci, come richiamo ideale alla cruenta scena del monte “Calvario”.
La chiesa, di forme vagamente gotiche su cui si innestavano elementi rustici, era però più corta di cinque metri rispetto alla porta che si apriva di fronte al presbiterio.
L’ampliamento della navata verso nord-ovest si compie tra il 1519 (data della Danza Macabra, che occupa la parte più antica della parete esterna) e il 1534, data dell’affresco con Carlo Magno sul muro interno, opposto al catino absidale. L’aggiunta finale di una scalinata, che fiancheggia il lato meridionale, coincide con quest’ultima periodo.
L’interno di Santo Stefano si ripartisce in un’unica navata, con un soffitto a capriate, formato da semplici travi in legno con funzione portante.
Solo la copertura che sormonta il presbiterio presenta una raffinata volta a crociera, capace di mutare le rigide geometrie spigolose dell’originale impianto romanico.
Questa soluzione crea un notevole distacco ottico tra il presbiterio stesso ed il corpo della navata, perché consente di ottenere uno più generoso apporto di luce proprio sopra l’altare, con una notevole sensazione di dilatazione dei volumi verso l’alto.
La sua principale caratteristica visiva consiste dunque nell’accentuare un certo verticalismo ben ritmato, proprio nel punto cruciale del tempio per il culto cristiano.
La copertura ricurva, così armoniosa ed avvolgente, con i suoi quattro spicchi che si intersecano diviene, idealmente, un cielo sotto cui officiare la Santa Messa.
Piccole finestre a feritoia si aprono in prossimità del “coro degli ecclesiastici” ovvero quella zona, riservata al sacerdote, su cui si leva l’ara del sacrificio eucaristico.
Queste strette monofore, necessarie per l’illuminazione, divengono parte integrante dell’architettura perché interrompono la solida continuità delle superfici murarie e ne esaltano, per converso, il notevole spessore.
Sottili fasci di una flebile luce filtrano da questi pertugi e rischiarano la penombra mistica di cui è pervasa la chiesetta.
Il lucore si diffonde debolmente per disperdersi poi nel buio della cripta o nella profondità delle diverse nicchie, disposte lungo le pareti o scavate nella stessa roccia che, in alcuni tratti si sostituisce ai lastroni del pavimento.
Le snelle nervature della volta, certamente di costruzione posteriore, si combinano con naturalezza ai pochi altri elementi strutturali del primo progetto, in uno stile oltremodo rude, ma egualmente elegante. Costoloni, architravi ed il grande arco trasverso che delimita il presbiterio divengono, allora, una straordinaria trama unitaria che intesse e definisce plasticamente la linearità delle masse.
Questo sapiente intreccio riesce, così, a rende alle sobrie architetture un aspetto più leggero, meno severo e monotono.
Sull’angolo sinistro del presbiterio si inserisce il basamento del campanile, a destra dell’arco trionfale, incassato nella parete si trova un secondo altare, mentre un terzo è lungo il lato di sinistra.
I muri sono solo parzialmente ricoperti di affreschi, la zona del Sancta sanctrorum, invece, presenta pareti riccamente istoriate da numerose pitture.
L’arcata che inquadra l’ingresso alla cripta custodisce le tombe di tre prelati, sulle rispettive lastre sono incisi i nomi, le date ed il calice, simbolo del ministero sacerdotale.
La chiesa cimiteriale di Carisolo, oltre ad essere uno dei monumenti più antichi e suggestivi del Trentino, reca ancora, al riparo dello spiovente meridionale del tetto, una Danza Macabra assai ben conservata, realizzata nel 1519 dal pittore bergamasco Simone Baschenis. per illustrare la caducità della vita e la fragilità delle sue effimere forme.
Come, infatti scrisse nell’ lontano anno 600 San Gregorio Magno la pittura nelle chiese serviva a spiegare alla gente semplice e a quei tempi analfabeta, la catechesi di quei misteri che altrimenti non sarebbe mai riuscita a comprendere,
La sua pittura è essenziale e di straordinaria efficacia. Colpisce e affascina il visitatore moderno. Facile è immaginare quale straordinario effetto potesse avere sugli uomini e le donne di oltre quattro secoli fa.
Chi commissiona la Danza ed elabora i testi delle didascalie sottostanti è la Confraternita dei battuti molto attiva nel vicino paese di Pinzolo per diversi secoli.
La grandiosa opera che occupa diversi metri quadrati, nella disposizione dei protagonisti riflette la rigida gerarchia della società medievale (i nobili precedono gli “uomini qualunque”) e la netta distinzione fra ecclesiastici e laici. La teoria delle figure, inoltre, procede anche qui per coppie, ognuna delle quali formata da un personaggio vivo, presentato con le caratteristiche della sua posizione sociale, tenuto per mano dal proprio scheletro che, con un ghigno, lo invita a partecipare alla danza. Le pitture del Baschenis non sono avvolte da quella luce enorme, dorata, che però appiattisce, sfuma e “placa” i volumi tipica del primo cinquecento italiano.
Al contrario, i suoi personaggi sono nimbati da una luminosità nordica, quel bagliore tagliente, radente, la luce delle lunghe proiezioni, dove le ombre sono proprio buie e hanno contorni netti…
Umili o ingenue, sofisticate e proterve, ironiche o drammatiche, provocatorie, didascaliche oppure apocalittiche le figure create dal Baschenis significano come, in ogni tempo, abbia un valore univoco, non solo il la paura della Morte e dell’ignoto, ma anche, e soprattutto, il senso profondo dell’essere, di cui l’ossuto angelo nero, nell’inconscio collettivo, rappresenta non la fine tragica, ma l’inscindibile lato oscuro, che rende così affascinante la nostra esperienza terrena.
Le sinistre immagini della Danza della Morte, nella storia dell’arte, sono l’indispensabile premessa per quell’appassionato studio verso quelle creature della bellezza gioiosa e solare, emblemi di una ridente gioventù, che i grandi artisti del Rinascimento ci hanno tramandato.

Written by:

Carlo Ballotta

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