La nostra cultura, da secoli ormai, concepisce la morte come l’estrema sconfitta esistenziale di un individuo.
Una simile visione, il cui il decesso si connota sempre quale vento negativo, rispetto alla positività del vivere, è comprensibile perché nel nostro animo, anche se corrotto dai sensi e dallo scorrere inesorabile dei giorni, è pur sempre insita una strana forma d’estasi o, secondo altre scuole di psicanalisi, di sottile nevrosi, legata alla contraddittorietà dell’esistere.
Questa pulsione energica, egoistica, a tratti selvaggia, è fondata sull’individualismo e si manifesta in ogni soggetto anche con i caratteri rudi di un’affermazione fisica, quasi brutale.
La forza istintiva, allora, ci spinge in modo inconscio a trarre illusorio godimento, anche materiale, dal tempo presente.
In altri casi, invece, il desiderio di vivere, frustrato dalle delusioni, c’induce a baloccarci in quell’indefinito futuro magnifiche sorti e progressive [1], secondo il celebre verso leopardiano, che costruiamo artificialmente, quale irreale castello di fantasmi poetici dove trovano rifugio le nostre eteree fantasie.
Un tratto contraddistingue l’occidente post industriale e le giovani generazioni in particolar modo: una continua, faticosa ricerca d’identità.
È evidente come credenze ed ideologie, nel disincantato crollo generale di granitiche certezze e dottrine totalizzanti, si stiano profondamente diversificando e siano capaci di modificare il nostro rapporto percettivo con la realtà ed i fenomeni naturali.
In un’epoca, come l’attuale, di pensiero “debole”, dove s’impone una visione minimalista e destrutturata di valori e concetti, si levano dal grigiore della mediocrità borghese le intelligenze più trasgressive e marginali nella loro spietata critica alla cultura di massa occidentale.
Questa bella immagine letteraria così forte ed immediata per indicare una forte opposizione intellettuale alla nostra società rievoca una metafora molto cara al grande filosofo Hegel secondo cui la sapienza è come una civetta che s’alza in volo nella notte della civiltà
Gli spiriti forti e liberi, allora, grazie ai loro fecondi travagli interiori, giungono ad elaborare una nuova, coraggiosa prospettiva, attraverso cui interpretare le grandi questioni esistenziali, attorno al vivere ed al morire.
L’originale filosofo francese Emil Cioran risponde alle inquietudini, che da sempre accompagnano anche il solo soffermarsi per un istante sull’idea della morte.
La sua analisi estrema sovverte tutti i riferimenti e le categorie del pensare moderno, siccome pone in discussione la positività stessa del nascere.
In quest’ottica, genialmente rovesciata, la vera condanna dell’uomo, a causa delle proprie tragiche debolezze, non è il morire, evento massimamente naturale, ma il venire al mondo.
Per l’autore, infatti, il nascere è un atto delittuoso, perché implica un doloroso abbandono di quello stato assoluto ed estatico di sublime incoscienza, rispetto al male di vivere, che precede la maledizione del vivere umano su questa terra.
L’uomo, allora, perde la sua originaria immortalità, propria di chi non è, quando apre gli occhi alla luce del mondo terreno.
Egli, infatti, è solo un dannato errore, un gesto irrazionale o forse un sadico capriccio della natura nei suoi infiniti cicli di creazione e distruzione della materia.
La stirpe umana, di cui Dio non ebbe misericordia, con la sua capacità intellettuale e d’astrazione si tortura da sola, per giunta, aggiungendo afflizione ai propri patimenti, perché s’immagina come centro dell’universo e misura ultima del creato e, così, diviene sempre più schiava delle proprie angosce.
Cioran, con efferata lucidità, definisce sé stesso come un’insolita sintesi tra glaciale distacco dagli affanni e violente passioni ideali, un connubio d’opposti, insomma, punteggiato da un’instabile combinazione tra slanci lirici ed abissi di cupo cinismo nichilista e vuole convincerci sulla condizione sommamente maligna ed ingiusta del vivere.
Contesta così alla radice l’essenza stessa del nostro presunto esser vivi, ossia la cieca ostinazione a sopravvivere che anima indole e voglie della gente sparsa per il globo.
“La sofferenza diverrà la grande e spietata padrona nell’universo delle credenze se l’uomo, dopo il tramonto degli dei, saprà ridefinirsi in una dimensione priva di quel giusto ateismo [2], contro lo strapotere violento della religione, e pietà verso la propria ingrata sorte” con questa dura sentenza si chiude la nera visione del mondo, secondo Emil Cioran.
Forse solo il Leopardi riuscì a sintetizzare questa sfiducia nell’uomo e nella vita stessa con una formula ancor più sintetica e tagliente, quando chiuse un suo grande idillio (Canto notturno di un pastore ettante dell’Asia) con questo verso lapidario e devastante :”A chi nasce funesto è il di’ natale”.
L’aspetto paradossale di un secolo atroce come il Novecento, disseminato d’orrori e nefandezze, suggeriscono alla luciferina onestà d’analisi e giudizio di Cioran dolci asprezze e fragorosi silenzi d’eroica protesta contro un conformismo soffocante.
Il suo messaggio di cattivo maestro, così pessimistico, lascia ben presto il posto all’annullamento totale assieme allo scetticismo più aspro, nell’impossibilità assoluta di credere e sperare, ma riamane sempre sotteso da quella perversa ambiguità tra il vivere ed il morire, così cara alla nostra epoca, che ha riempito intere pagine della critica filosofica e della letteratura mondiale.
I miei dubbi intorno alla Provvidenza non durano mai a lungo: chi, se non la Provvidenza, sarebbe in grado di assegnarci tanto puntualmente la nostra quotidiana razione di disfatta? Ciò che deve rendere sopportabile la vecchiaia è il piacere di veder scomparire l’uno dopo l’altro tutti coloro che avranno creduto in noi, e che non potremo più deludere.
Sovversivo è solo quello spirito che mette in dubbio l’obbligo d’esistere; tutti gli altri, anarchico in testa, scendono a patti con l’autorità costituita.
Chiunque non sia morto giovane merita di morire.
[1] Si traduca così: un grandioso futuro di progresso.
[2] Nel pensiero di Cioran si delinea come da qualsiasi sogno utopico o sacrale basato su una presunta età dell’oro, sia essa passata o futura, si scatenino sempre forze liberticide.