Il Diavolo, le arti e l’Aldilà

“E guai a voi, o terra e mare,

perché il diavolo si scaraventa su di voi con ira grande,

egli, infatti, sa che il tempo ormai è breve. […]

Qui dunque sta la sapienza,

chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia,

perché è una cifra d’uomo,

tale numero è seicentosessantasei.”

(Apocalisse cap. 12. – 13.)

Intorno all’anno mille si moltiplicarono, spaventosamente, oscuri segni premonitori ed inquietanti presagi sull’imminente fine del tempo.
Nel “dies irae”, il terribile giorno del giudizio, il mondo, come recitava la straordinaria “sequentia” della liturgia esequiale, si sarebbe dissolto tra sinistri bagliori, strida disperate e vapori sulfurei nelle voragini infernali.
La chiesa fu costretta, per orientare verso la salvezza il pensiero del cristiano, spesso distratto dalle gioie mondane, “a premere il registro della paura e del terrore” come ha notato Chiara Furgoni, in un brillante saggio.
Una simile ossessione per la morte ed i temi macabri nascondeva una più generale crisi di valori e riferimenti ideali che, al passaggio di millennio, attraversò la società feudale.
Tutta l’Europa cristiana fu attraversata dalla profonda angoscia per la venuta dell’anticristo che, con le sue orde di diavoli, avrebbe disseminato orrore e distruzione sino agli estremi confini della terra. Assieme a paure ancestrali e visioni apocalittiche si diffusero, nelle cronache di città, borghi ed abbazie, racconti e testimonianze dirette di possessioni diaboliche e manifestazioni demoniache.
In quest’epoca le angosce, gli affanni quotidiani assieme al terrore per la dannazione eterna incidevano notevolmente sull’inconscio collettivo.

Solo una debole soglia separava allora fantasie e sogni mistici dalla realtà materiale.
Questo esile confine rappresentava solo un labile diaframma, alquanto sfumato, per altro, tra due zone dell’essere che spesso si sovrapponevano con facilità.
Le apparizioni, dunque, erano fenomeni assolutamente comuni, con cui gli uomini convivevano ogni giorno ed erano una delle modalità più diffuse e del tutto normali attraverso cui il sovrannaturale si rivelava.
Il dolore dell’umanità, a causa dell’antica colpa, commessa dai progenitori, era la chiave di lettura prediletta per interpretare lo stesso significato intimo dell’esistenza terrena e della storia.
In un mondo che viveva sotto la costante minaccia dell’insicurezza, anche l’arte esprimeva le ambasce e lo smarrimento degli uomini dinnanzi allo spietato scatenarsi delle forze naturali.
Catastrofi, malattie e stenti erano vissuti come la drammatica conseguenza dell’esilio terreno cui l’umanità era stata confinata dal proprio istinto peccaminoso.
Uno dei temi più frequentemente raffigurati sui capitelli di abbazie e pievi romaniche era, appunto, l’episodio biblico del peccato originale. Le figure gravi, rozzamente scolpite nella pietra, di Adamo ed Eva cacciati dall’Eden, con il loro tragico portato di miseria e disperazione, esprimevano la consapevolezza del male e la vergogna per l’allontanamento volontario da Dio.
Assoluto protagonista di incubi e sortilegi, il diavolo era anche un personaggio centrale nella letteratura medioevale e nelle arti figurative.

Nei fregi che adornano portali ed architravi delle cattedrali era immaginato come un’orrida creatura che ghermisce e sbrana avidamente prede umane. Nell’esperienza d’ogni giorno il maligno si nascondeva dietro mille, raffinati travestimenti. Avrebbe, infatti, potuto agevolmente assumere le sembianze di una stupenda e lasciva fanciulla, o addirittura di un santo.
In diverse occasioni si celava entro le spoglie di un bel giovane, di un animale, ma sovente compariva dinnanzi alle proprie vittime con i suoi veri connotati, cioè come quell’essere deforme e sguaiato con corna, la coda, e piedi caprini che ammiriamo tutt’oggi in tante sculture delle chiese medioevali.

Satana non era un’entità simbolica, ma una presenza reale, quasi fisica, della cui concreta azione ben pochi osavano dubitare. Molte tradizioni diverse si sono susseguite e accavallate, dando luogo a raffigurazioni differenti a seconda di tempi, zone geografiche, occasioni.

Lo storico e religioso Rodolfo il Glabro ci ha tramandato un racconto molto fedele e realistico di un proprio, improbabile, incontro con il demonio. Le sue parole racchiudono, con incredibile efficacia, tutti i tormenti di un periodo storico.
[…] Una notte, prima dell’ufficio mattutino, comparve dinnanzi a me, ai piedi del mio giaciglio, una sorta di nano, orribile a vedersi.
Aveva un collo gracile, un volto smagrito, occhi nerissimi, la fronte rugosa ed aggrinzata, il naso schiacciato, le labbra tumefatte. Il mento era stretto e sfuggente, con una barba caprina, aveva orecchie aguzze con folta peluria, i capelli irti e scomposti, denti di cane, il cranio appuntito, il torace gonfio, il dorso curvo e gibboso, tutto il corpo era chino in avanti, in preda ad un convulso spasmo.”
Come è noto, nella sacra scrittura Satana non è mai definito da alcun particolare tratto fisico o lineamento. Nel Lamento sul re di Tiro, nel Libro di Ezechiele, il profeta ci offre un’immagine accattivante di Lucifero, caratterizzata da una viva bellezza e da un luce intensa.
L’angelo ribelle era ornato d’oro e risplendeva di pietre preziose, esibendo i riflessi di rubino, topazio, diamante, crisolito, onice, diaspro, zaffiro, carbonchio, smeraldo; gemme, emblemi di virtù e grazia, che perderà per sempre nel momento in cui dall’Eden sarà scaraventato negli abissi infernali (Ezechiele, 28, 12-19).
Nel Vecchio testamento, però, manca ogni indicazione sulla bruttezza di Satana.
I Profeti si concentrarono soprattutto sulla sua turpitudine morale, ponendone in risalto l’indole malvagia e le abiette inclinazioni. Una simile nequizia era riassunta, in modo molto ermetico, dai vocaboli ebraici che lo definivano come “osteggiatore”, “calunniatore”, nonché “Padre d’ogni menzogna”, come lo definiscono le stesse parole del Cristo nel Nuovo testamento.
Secondo questa scelta stilistica, fu effigiato come il serpente che corrompe Eva, inducendo il genere umano ad una lunga e dolorosa inimicizia con l’Eterno.
La serpe della Genesi, fu spesso rappresentata col seno, assieme a caratteri sia maschili sia femminei, per indicare la profonda ed infida ambiguità del diavolo.

La dottrina più autorevole leggeva nel rettile tentatore un simbolo perverso della conoscenza e dei pericoli che possono nascere da un’insana curiosità.

Analogamente all’elaborazione di sant’Agostino nel “De Civitate Dei”, l’’associazione dell’angelo decaduto al regno delle tenebre fu sviluppata dagli altri Padri della Chiesa.
Gli esegeti, dunque, ritrassero sempre il demonio come un nero o un «etiope».
L’”angelus tenebrarum” conserverà nei secoli la peculiarità della pelle scura.
Questa immagine si consoliderà ulteriormente nell’iconografia delle Tebaidi e nelle storie di san Benedetto. A questo proposito si possono anche ricordare gli affreschi di Spinello Aretino in San Miniato al Monte a Firenze (1387-1388) e di Luca Signorelli nell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (1497-1498).
Il processo della lenta e inesorabile “degradazione fisica” del diavolo avviene compiutamente solo nel basso Medioevo.
A partire dal XII secolo, periodo in cui vennero riprese e nuovamente interpretate le tipologie iconografiche del mondo classico, il demonio fu caratterizzato dai tratti del satiro, che a loro volta erano modellati sulla figura del capro, simbolo di lussuria.
I diavoli vennero raffigurati con orecchie a punta, barba, zoccoli e corna caprini, zampe di uccello, corpo peloso e glabre ali “a guisa di uipistrello” (Dante, Inferno, canto 33). Le creature del male divennero poi gastrocefale e la bocca dell’inferno fu paragonata alle immani fauci del Leviatano, un terrificante mostro biblico, personificazione della violenza e del caos.
Questo archetipo compare in numerose sculture francesi e italiane, per esempio nella facciata del duomo di Ferrara (XIII secolo), nonché in diverse miniature.

Nell’iconografia paleocristiana e dell’alto medioevo Satana e i suoi seguaci erano dunque rappresentati come aspidi, basilischi, leoni, draghi o manticore.

Il male aveva così le sembianze di quelle belve immaginarie e fantastiche, che, impresse nel marmo da valenti scultori, popolano ancora interi bassorilievi e guglie delle chiese gotiche.
Satana, a volte, era pensato come un angelo rinnegato come accade nel mosaico (del V secolo) in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, dove è dipinto a modo di uno spirito paradisiaco dal volto turchino che troneggia, sinistramente, sopra i capri posti a sinistra di Gesù.
In questo caso l’immagine di Lucifero trova la sua giustificazione teologica nelle parole dell’apostolo Paolo che lo designa quale principe delle tenebre.
Il diavolo esercitava sulla vita degli spauriti fedeli un potere immenso.
Le fantasie dell’epoca, in una visione dualistica dell’universo, gli conferivano addirittura il ruolo di una divinità malefica, nemica del Padre Celeste, stravolgendo gli stessi principi teologici del cristianesimo.
L’ossessione per la ferale presenza di Satana dominava l’immaginario popolare.

L’uomo del medioevo quando, nella penombra della cattedrale, si raccoglieva in preghiera, recitando la celebre formula conclusiva del Padre Nostro: “Liberaci dal Male” non chiedeva sollievo e conforto dalle sofferenze o dalle afflizioni terrene, perché la tribolazione era connaturata alla stessa esperienza del cristiano nella vita fisica.
Piuttosto, supplicava l’Onnipotente di proteggerlo con il Suo invincibile esorcismo, dai sottili inganni e dalle lusinghe del maligno. Il Male, così, diveniva così un evento metafisico, assoluto, era un essenza inspiegabile per i comuni mortali, che si collocava in un ignoto piano ultraterreno.
Eruditi e uomini di fede si arrovellarono per secoli attorno al “numero della bestia”, la misteriosa cifra indicata da San Giovanni, al capitolo tredicesimo dell’Apocalisse.
La numerologia, una pratica molto diffusa attorno al X-XI secolo, spiegava così l’enigmatico Seicentosessantasei con cui, nella profezia di S. Giovanni Evangelista, sarebbero stati segnati gli adepti del demonio.
Nelle culture antiche ai numeri è sempre stata riconosciuta un’enorme forza simbolica.
Il tre, numero primo, divisibile, quindi, solo per se stesso e per l’unità, rappresentava perfezione e completezza perché rifletteva il mistero della Santissima Trinità, tre, infatti, erano le manifestazioni di Dio, ovvero Padre, figliuolo e Spirito Santo.
Anche tutti i numeri ricavati dalle potenze del tre (9, 27, 81…) condividevano pienamente la sua natura magica.
Sei, al contrario, è un multiplo imperfetto del tre, la sua più segreta sostanza è quindi profondamente contaminata dall’errore e dal vizio.
Così si può intuire il significato allegorico dell’arcana cifra: seicentosessantasei diviene una parodia blasfema della Divina trinità, perché un numero impuro e volgare, in cui si annida il male, il sei, è ripetuto tante volte quante sono le persone del Dio Uno e trino.
In un orizzonte irto di insidie e pericoli gli uomini non erano mai soli, nella loro disperata battaglia contro le potenze infernali. Un aiuto prezioso era garantito da Cherubini, Serafini che formavano le sterminate gerarchie celesti.
Il senso della vita umana era racchiuso nella faticosa ascesa dell’anima verso il mondo ultraterreno, salita dolorosa segnata da continue cadute e sconfitte.
Come acutamente ha notato Jacques Le Goff, la società medioevale si dibatte tra gli artigli di feroci demoni ed il viluppo di angeliche ali piumate che rendono la stessa vita un incubo di palpitazioni alate, un inestricabile complesso che imprigiona e soffoca l’uomo nelle maglie di una dimensione soprannaturale vivente, terribilmente reale.”

Written by:

Carlo Ballotta

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