Certificato necroscopico per il tradizionale seppellimento e certificato necroscopico per la cremazione: trattasi di certificati distinti e diversi?
Una buona modulistica – a volte – può davvero semplificare la vita a tutti gli attori e protagonisti delle attività funerarie, soprattutto se gravati da compiti istituzionali e d’ufficio, temporibus illis se ne accorse, per prima, la Regione Lombardia con l’allegato 3 alla D.G.R. n.20278 del 21 gennaio 2015 emanata a completamento del Reg. Reg. 9 novembre 2004 n. 6.
Allora: cremazione e certificato medico necroscopico, che neghi categoricamente il sospetto di morte dovuta a reato, sono fasi strettamente congiunte; con il secondo sovraordinato all’esecuzione della prima, almeno per quanto riguarda i pubblici poteri.
Muoviamo, dunque, da questo paradigma: nell’iter della cremazione è assolutamente indispensabile un certificato accordato dal medico necroscopo, che allontani esplicitamente il sospetto di morte dovuta a reato oppure, come sostengono alcuni medici del Dipartimento di medicina legale di ormai diverse AUSL, è sufficiente quanto dichiarato nel certificato necroscopico alla voce rubricata come “morte naturale”?
Vale a dire, se si tratta di morte non violenta, è implicito che non ci sia sospetto o, peggio ancora, la certezza di reato, altrimenti il cadavere resterebbe “sotto procura” a disposizione della Magistratura.
Molti sanitari, tuttavia, ormai reputano che secondo l’art. 79, comma 4 e 5, del D.P.R. 285/1990 e l’art. 3, comma 1, lett. a) della L. n.130/2001 debba essere firmato ad hoc un certificato ulteriore, che attesti esplicitamente l’assenza di fumus boni juris relativo ad un illecito penale.
La vigente normativa statale, di cui alla L. n. 130 del 2001, all’art. 3, comma 1, lett. a) è perentoria, nel richiedere questo ineludibile momento di verifica tecnico-strumentale, poiché la cremazione è un rapido processo ossidativo-distruttivo ottenuto con il calore, notoriamente irreversibile.
A sua volta, ad esempio, la Legge della Regione Sardegna n. 4 del 22-2-2012, all’art. 4, comma 2, opera rinvio alla normativa nazionale di cui alla menzionata L. n. 130/2001.
Dopo questa consentanea premessa legislativa, va trattato il tema centrale del problema consistente nella differenziazione ontologica e funzionale tra il “certificato necroscopico” e “il certificato” escludente il sospetto di morte dovuta a reato, come originariamente richiesto dall’art. 79 comma 4 D.P.R. n. 285/1990 il quale ormai soppiantato, anche per preciso indirizzo ministeriale, dall’art. 3 L. n. 130/2001 vedrebbe, nella prassi almeno, una sorta di impropria reviviscenza…e gli incartamenti aumentano esponenzialmente nella burocrazia funeraria!!
Il primo, comunque, è previsto dall’art. 4, del D.P.R. 285/1990 ed ha lo scopo di fare risultare l’accertamento dell’effettività incontrovertibile di un decesso, giusto per fugare anche la sola ombra di morte apparente, evento ormai talmente rarefatto, grazie al progresso medico-scientifico, da non rientrare quasi più nel computo statistico.
Detto documento è il presupposto logico e prodromico perché l’Ufficiale dello Stato Civile possa rilasciare il permesso (o autorizzazione alternativamente a inumazione o tumulazione, dato il mutamento di nomenclatura introdotto con il regolamento per la revisione e semplificazione dell’ordinamento di stato civile) per il seppellimento del cadavere, espressamente menzionato, appunto dall’art. 74 del D.P.R. n. 396/2000.
Questa visita avviene non prima di 15 ore dal decesso (affinché possano formarsi i c.d. signa mortis), salvo i casi annoverati dagli artt. 8, 9 e 10 del D.P.R. n.285/1990, e comunque non dopo le 30 ore (fatte salve alcune LL.RR. tipo la L.R. Veneto n. 18/2010 la quale modifica questo lasso temporale).
Il secondo certificato – ben distinto dal primo – è contemplato dalla normativa statale, soprattutto da quella regionale in premessa, ricordata e confermata anche dall’art. 74, 3° comma, del D.P.R. n.396/2000.
La funzione di detto certificato è quella di accantonare – come richiede la norma – anche una semplice, ancorché remota, possibilità di reato.
Quindi, secondo parte preponderante della dottrina, saremmo dinanzi a due atti distinti teleologicamente orientati a fini diversi.
In tal senso si registra una prammatica consolidata nel tempo. Ad ulteriore conforto di questa tesi si aggiunge che in altre Regioni (si veda Regione Puglia Reg. Reg. n. 8 dell’11-3-2015) sono stati pubblicati dei moduli diversi di attestati, l’uno, il certificato necroscopico ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. 285/1990, e, l’altro, il certificato necroscopico per la cremazione di cui all’art. 79 comma 4 del D.P.R. 285/1990 e art.3 della L.n. 130/2001.
Tuttavia non si condivide l’orientamento – non scevro, invero, di qualche fascino, assunto da molti uffici anche sulla scorta della linea fin qui seguita, per evidenti ragioni di semplificazione ed isteresi amministrativa di una modalità di “smaltimento” del cadavere, come la cremazione la quale, comunque per le sue intrinseche peculiarità “violente”, vincola già ad una procedura di per sé aggravata, con diversi filtri di legittimità ed autorizzazione ad sustantiam, non semplicemente nominale o pro forma.
Almeno, però, non si dovrebbe correre il rischio di un’inutile sovrapposizione, siccome – come ha ricordato il Ministero di Grazia e Giustizia con nota n. 1/50/FG33 (92) 114 del 12 giugno 1992 – l’autorizzazione alla cremazione è alternativa a quella per inumazione o tumulazione.
Si è di quest’idea: un solo certificato necroscopico “omnibus” ben stilato e completo in tutte le sue sezioni potrebbe esser più che sufficiente e bastevole, se poi vogliamo baloccarci nei bizantinismi endo-procedimentali con codicilli tautologici, ridondanti e pleonastici, umilmente mi accodo ad insigni giuristi ed eruditi studiosi del diritto funerario, io in questa complessa materia sono solo un vile mestierante profano!