Dispersione ceneri: i riflessi di natura penale che questa pratica comporta

Il principale (o… se fosse finalmente l’unico, ed il solo?) riferimento normativo alla pratica funeraria, (invero piuttosto “estrema”, per le nostre tradizioni giuridiche almeno) della dispersione delle ceneri è costituito ancora oggi dalla legge 30 marzo 2001, n. 130, recante appunto “Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri.”.
L’eclettica legge, infatti, tra i vari istituti corollario della cremazione sommariamente delineati, ma pur sempre introdotti nell’Ordinamento con norma di principio (ancora da implementarsi compiutamente…), ha avuto il pregio almeno di superare da subito il divieto tassativo e categorico posto dal primo comma dell’art. 411 del codice penale, secondo il quale “Chiunque distrugge, sopprime o sottrae un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne sottrae o disperde le ceneri, è punito con la reclusione da due a sette anni.” (si tratta di un delitto punibile esclusivamente a titolo di dolo – Cassazione penale, sentenza n. 6051 del 2004).

La profonda riforma, dopo tutto su una normativa prettamente funeraria, ovvero di polizia mortuaria, che coinvolge addirittura il Cod.Penale, trova la sua ratio politica sia nella volontà di rimuovere gli ostacoli legali per la diffusione della pratica cremazionista favorita dal legislatore anche al fine di agevolare la soluzione del problema sull’annosa carenza di spazio nei nostri cimiteri “ad accumulo”, orami prossimi alla saturazione…in molte aree geografiche del Paese.
Lo spirito stesso della Legge, piuttosto liberaleggiante, coglie anche la necessità di garantire alla persona maggiore libertà nella destinazione delle proprie spoglie, accordando in tal modo primario rilievo al potere di disposizione del proprio corpo dopo la morte. Forse proprio attorno al problema cremazione si riaccende il dibattito pubblico e di conseguenza anche giuridico sul tema nebuloso del diritti del post mortem, spesso visto con superficialità solo in termini successori e patrimoniali.
L’art. 2 della legge n. 130/2001 non ha però eliminato/abrogato l’antigiuridicità di tale condotta, (che, è bene ricordare è, e rimane reato!), bensì ha statuito, aggiungendo un terzo comma al citato art. 411 c.p., come non configuri fattispecie di reato l’azione di dispersione delle ceneri di cadavere (e se fosse “resto mortale”, invece?), purché in presenza di due condizioni concorrenti e non alternative tra loro, ossia la volontà espressa dal defunto e l’autorizzazione dell’ufficiale dello Stato Civile rilasciata sulla base della prefata volontà, quando essa sia accertata (come?)

Secondo la dottrina prevalente, la causa di giustificazione stabilita dal terzo comma avrebbe applicazione solo nel caso in cui sia ravvisabile una chiara manifestazione di volontà da parte del defunto
A nulla, allora rileverebbe l’eventuale volontà positiva dei famigliari in assenza di qualsiasi determinazione in tal senso del loro congiunto.
La dispersione delle proprie ceneri sarebbe, dunque, di sola eleggibilità da parte del de cuius, esulando, dunque dal novero degli atti di disposizione esercitabili da terzi sulle spoglie mortali della persona diretta interessata.
Sempre l’art. 2 ha aggiunto un quarto comma all’art. 411 c.p., con il quale si costruisce una nuova figura di reato, relativa a due diverse e singole fattispecie. Detto comma prevede, infatti, la pena alla reclusione da due mesi a un anno e la multa da euro 2.582,00 a euro 12.911,00, per colui che disperda le ceneri senza l’autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile, oppure effettui tale operazione con modalità diverse rispetto a quanto voluto dal defunto.

Seppure la norma non specifichi il punto in diritto, vero centro nevralgico di tutto il nostro dissertare, ovvero quale sia la forma quanto più possibile certa ed inoppugnabile in cui “scolpire” il prefato volere del de cuius.
Appare evidente che nel primo caso debba comunque sussistere un’espressione di volontà del defunto, poiché altrimenti si ricadrebbe nell’ipotesi punita dal primo comma (Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 19 settembre 2016, n. 38757).
Il secondo caso è la prova di come con la legge n. 130/2001 il Parlamento abbia inteso attribuire rilevanza ai desideri del defunto non solo in ordine alla dispersione delle di lui ceneri, bensì anche al destino fisico delle medesime, con lo sversamento delle stesse, quale atto irreversibile ed ultimo.
Difatti qualora il defunto si sia limitato ad esternare la sua volontà senza specificare il luogo dello spargimento in natura, risulta consentita ogni modalità che non sia contraria ai limiti di ordine pubblico, si vedano a tal proposito i relativi divieti, rigidamente enumerati e dettati dalla stessa legge.

Va argutamente osservato come la richiamata disposizione non disciplini la situazione anomala in cui il famigliare, contrariamente alla volontà del defunto, anziché procedere alla dispersione trattenga l’urna presso di sé, in regime di affido ceneri, o la tumuli in cimitero, per una più classica e rassicurante sepoltura.
Infatti, il testo della norma è chiaro nel contenere la condotta penalmente rilevante al solo spargimento delle ceneri secondo modalità diverse da quelle scelte dal defunto, rimanendo quindi esclusi dal suo ambito applicativo comportamenti difformi ed azioni diverse da quest’ultima.
E neppure si ritiene che un tale comportamento integri l’ipotesi di sottrazione sancita dal primo comma dell’art. 411 c.p.; in effetti, secondo la dottrina, la mancata dispersione risulta lecita in quanto non lesiva del bene protetto dalla norma penale e non contraria alle finalità perseguite dalla medesima.
La legge purtroppo, causa sue intrinseche lacune, non precisa in quale forma debba essere manifestata la volontà del defunto. In effetti, gli artt. 1 e 3, comma 1, lett. c), si limitano a specificare che la dispersione debba avvenire nel rispetto della volontà della persona scomparsa.

In mancanza del regolamento di attuazione, con cui l’Esecutivo avrebbe dovuto modificare il D.P.R. n. 285/190, la relativa disciplina risulta, anche per inerzia colpevole delle Autorità Centrali, avocata al legislatore regionale…per cedevolezza. (quando semmai dovrebbe avvenire il contrario).
Le Regioni, però, hanno almeno, tra tanti demeriti, una nota di riguardo su questo aspetto tutto politico e di rapporto con il cittadino: pur se felicemente avulse dallo scibile mortuario rendono self-executing (in modo contorto) intere sezioni della L.130/2001, se oggettivamente non fosse stato così, molti diritti di disposizione in materia funeraria, solennemente proclamati dal Parlamento, nel concreto, sarebbero ancora lettera morta: inoperativi e sospesi nel loro limbo di latenza.
In questo senso vi sono Regioni che si limitano a richiamare genericamente le modalità contemplate dall’art. 3 della legge n. 130/2001, altre che si spingono oltre e ritengono idonee allo scopo tutte le forme legali che consentano di far emergere esplicitamente e direttamente la volontà del defunto, quali le disposizioni testamentarie non patrimoniali, le dichiarazioni sottoscritte esplicitamente a tal fine (ad esempio, l’iscrizione ad associazione riconosciuta che abbia tra i propri scopi quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati e della dispersione delle risultanti ceneri), o altre attestazioni di volontà ritualmente rese di fronte a pubblici ufficiali.

Non mancano, allora le ipotesi in cui venga riconosciuta valido, analogamente all’iter per l’autorizzazione alla cremazione, l’atto sostitutivo di notorietà: ovvero il riferire da parte del coniuge o dei prossimi congiunti che il defunto avesse manifestato solo verbalmente in vita la volontà di dispersione delle proprie ceneri.
Si è visto sopra come abbia riflessi di natura penale il rispetto delle modalità e/o condizioni decise dal defunto. Tra queste rientrano certamente i luoghi ove effettuare lo spargimento.
Tuttavia detti luoghi devono necessariamente rientrare tra quelli annoverati dall’art. 3, comma 1, lett. c), della legge n. 130/2001.
Infine, per quanto riguarda i soggetti competenti ad eseguire la dispersione bisogna fare riferimento alla lett. d) della disposizione appena citata, che elenca nell’ordine: il coniuge o altro familiare avente diritto, l’esecutore testamentario o il rappresentante legale dell’associazione cui il defunto risultava iscritto o, in mancanza, il personale comunale specificatamente autorizzato, quest’ultimo in via residuale.
Va comunque ammessa la validità del mandato post mortem, vincolante per gli eredi, avente ad oggetto le istruzioni del mandante circa la destinazione delle proprie ceneri, da concludersi senza rigore di forme (non necessita della forma testamentaria trattandosi di un contratto di mandato da eseguirsi dopo la morte del mandante) e la cui esistenza può essere provata con ogni mezzo (Cassazione civile, sez. I, sentenza 23 maggio 2006, n. 12143).

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Carlo Ballotta

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