In un saggio di Maria Canella la storia delle sepolture in Italia Storia Dai temi igienici a quelli religiosi tutti i paradossi di una «negazione»
di Paolo Mieli
Come la Chiesa si oppose per due secoli alla sfida dei laici
In principio fu qualcosa che accadde nel 1822. Quell’anno, ai primi di luglio, il grande poeta inglese Percy Shelley – che dal 1818 si era trasferito in Italia con la seconda moglie Mary, l’autrice di Frankenstein – affogò, a seguito di una tempesta che aveva affondato la sua goletta «Ariel», al largo della costa toscana. Il corpo dell’autore del Prometeo liberato restò in mare una decina di giorni per essere alla fine ritrovato sulla spiaggia di Viareggio. E fu su quella spiaggia che, per decisione del suo grande amico George Byron, fu arso su una pira. Un celebre quadro di fine Ottocento, dipinto da Louis Edouard Fournier, ritrae quel cadavere tra le fiamme, la cerimonia rituale che precedette il trasporto delle ceneri di Shelley a Roma, nel cimitero degli inglesi. Da quel momento la cremazione fu considerata, soprattutto sotto il profilo simbolico, un rito laico. Qualcosa di più importante che un mezzo per liberare le città dalle perniciose conseguenze igieniche dei tradizionale metodi di inumazione dei cadaveri. La grande legge organica delle sepolture, che imponeva la creazione di cimiteri municipali extraurbani, era stata promulgata da Napoleone in Francia (nel 1804) e poi da noi (nel 1806). Ma fu necessario attendere l’Unità d’Italia perché, nel 1865, si giungesse a una disposizione definitiva che specificava come i comuni dovessero farsi carico della costruzione e della gestione di appropriati cimiteri pubblici e avviava così un cammino assai importante per la regolazione del trapasso (cammino che, tuttavia, procedette a passo di lumaca). Fu in questo contesto che si sviluppò la battaglia cremazionista di cui si occupa il capitolo centrale dell’importante libro di Maria Canella Paesaggi della morte. Riti, sepolture e luoghi funerari tra Settecento e Novecento, che sta per essere pubblicato da Carocci. Volume che si avvale della prefazione di un’autorità in questo campo, Michel Vovelle, autore di La morte e l’Occidente (Laterza). Vovelle è molto incoraggiante nei confronti della Canella e si spinge a lodare la sua «imprudenza», grazie alla quale l’autrice ha osato cimentarsi «con la coorte degli storici della morte» apportando «con pieno diritto» molti «arricchimenti alla disciplina». E, a tal proposito, Vovelle cita proprio le pagine sulla cremazione. A questo tema, l’incinerazione dei cadaveri, erano già stati dedicati alcuni volumi pionieristici: La morte laica. Storia della cremazione in Italia (1880-1920) e La morte laica. Storia della cremazione a Torino (1880-1920), editi entrambi da Paravia e curati rispettivamente da Fulvio Conti, Anna Maria Isastia, Fiorenza Tarozzi e da Augusto Comba, Serenella Nonnis Vigilante, Emma Mana; si parlava della questione anche in La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa (Lacaita) di Dino Mengozzi, oltre che in Una battaglia laica. Un secolo di storia della Federazione italiana per la cremazione di Marco Novarino e Luca Prestia (con una prefazione di Franco Della Peruta), edito dalla Fondazione Fabretti. Particolare attenzione era stata dedicata dagli accurati saggi di Comba e della Isastia – nei volumi succitati in cui i due storici figurano tra i curatori – al ruolo della massoneria in questa disputa. Ruolo che è ben analizzato anche in questo nuovo libro. Scrive Canella che la battaglia cremazionista nacque come rivolta contro lo stato delle sepolture urbane indiscriminate e come soluzione all’emergenza igienica causata dallo scarso o inesistente controllo sulle pratiche di inumazione. Anche se lei stessa mette subito in evidenza «come i danni e i pericoli provocati dalle sepolture, rilevati nelle accuse dei cremazionisti, fossero in gran parte retaggio dei sistemi di inumazione precedenti alla nascita dei cimiteri pubblici extraurbani voluti dalle amministrazioni comunali dai primi dell’Ottocento in avanti». La lotta dei fautori della cremazione «si svolse dunque quasi contemporaneamente alla costruzione dei cimiteri moderni, indebolendo, di conseguenza, la posizione dei cremazionisti, poiché veniva meno l’argomento principale della loro polemica e cioè la salvaguardia della salute pubblica dal punto di vista della prevenzione riguardo all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del terreno causato dalla decomposizione dei corpi». Coloro che si battevano per ridurre i cadaveri in cenere sostenevano che i cimiteri fossero gravi focolai di infezione e si proponevano, grazie ai progressi della batteriologia e della microbiologia, di dimostrare le pericolose conseguenze della decomposizione dei corpi sulle aree circostanti a quelle di sepoltura. La loro battaglia «aveva assunto così le caratteristiche di una lotta in favore del progresso e della modernità». Tanto più che questo genere di campagna aveva avuto origine nella Francia dell’Encyclopédie dove i philosophes, richiamandosi al culto della classicità e agli usi greci e romani, ne mettevano in evidenza il carattere di rituale laico e precristiano. In Italia, un secolo dopo, proprio perché – in seguito alla pur lenta costruzione dei nuovi cimiteri – venivano meno le obiezioni di carattere igienico al vecchio modo di seppellire i morti, prendevano il sopravvento le valenze laiche di quel rituale. È in questa chiave che va letto il duro contrasto che oppose i fautori della cremazione (di trasparente affiliazione massonica) alla Chiesa cattolica. Tra i paladini cremazionisti furono Carlo Maggiorani, Agostino Bertani e Luigi Pagliani che nel 1873 e successivamente nel 1877 riuscirono a far passare per legge un articolo sulla cremazione, che però doveva ancora essere autorizzata dal prefetto e dal Consiglio sanitario provinciale. I comuni cominciarono ad essere obbligati a cedere gratuitamente l’area necessaria alla costruzione dei crematori che vennero realizzati – a partire dal primo provvedimento del ‘73 – a Milano (1876), Lodi (1877), Cremona, Roma, Varese e Brescia (1883) Udine e Padova (1884), Torino (1888). Ma perché l’incinerazione fosse definitivamente approvata dal Parlamento si dovette attendere l’iniziativa di Francesco Crispi del 22 dicembre 1888, quando questa pratica fu inquadrata nella legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica. Si è detto dell’opposizione della Chiesa cattolica «per la quale era un’empietà perpetrare un’azione contro il corpo umano, anche se privo di vita, poiché esso era stato donato all’uomo direttamente da Dio e sarebbe risorto insieme all’anima dopo il Giudizio finale». I giornali cattolici si scagliarono contro l’incinerazione dei defunti cercando di descriverla nel modo più ripugnante. La Chiesa, sostiene la Canella, era conscia che la cremazione avrebbe condotto a una laicizzazione della cerimonia funebre e che «proprio per questo essa era divenuta una delle bandiere ideologiche della massoneria». Ma nei testi sacri non ve ne era un’esplicita condanna, ragion per cui i cattolici cercarono «di deviare la discussione sostenendo che i cremazionisti erano spinti da un acceso anticlericalismo e da una cieca volontà di scristianizzare la società». Accuse non prive di pezze d’appoggio. Si giunse così a un divieto canonico della cremazione delle salme, divieto posto dal decreto della Congregazione del Santo Uffizio il 12 maggio 1886 e confermato successivamente da papa Leone XIII. Le resistenze dell’opinione pubblica fortemente influenzata dalla Chiesa, riferisce la storica, furono dunque durissime sia per motivi religiosi («veniva posta in dubbio la resurrezione dei defunti cremati e si considerava la cremazione, in quanto presunto appannaggio della massoneria, un atto di deliberata offesa alla Chiesa»), sia per motivi igienici («l’apparecchiatura della cremazione era ancora in fase sperimentale»), sia per motivi giuridici («la cremazione poteva impedire indagini legali post mortem») sia per motivi culturali e sociali («la tradizione occidentale dell’inumazione aveva effettivamente una storia lunga diciannove secoli»). Il vigore di queste resistenze ha reso il conflitto su tale questione assai aspro, ciò che ha dato alla battaglia italiana a favore dell
a cremazione un «carattere militante» che non si è avuto nei paesi protestanti del Nord Europa. E «ha fatto sì che, pur superati gli ostacoli cui si è accennato, la cremazione sia rimasta fino ad oggi un fenomeno che coinvolge una minoranza della popolazione», mentre nei paesi protestanti la metà circa dei defunti vengono cremati. Molto efficace è la descrizione che la Canella fa degli aspetti ideologico architettonici della questione. Per cominciare, la studiosa osserva che, nonostante la battaglia cremazionista fosse iniziata in aperto contrasto con i cimiteri tradizionali, la costruzione dei templi e dei cinerari avvenne necessariamente all’interno dei cimiteri stessi, indebolendo di conseguenza il messaggio simbolico degli edifici legati alla cremazione, rendendo obbligate le scelte in termini di localizzazione urbana e riducendo il campo delle opzioni architettoniche e stilistiche. I primi esperimenti ad opera dei pionieri del settore (Paolo Gorini, l’inventore del forno crematorio, Giovanni Polli, Celeste Clericetti, Pietro Venini) diedero esiti non incoraggianti: fumi, odori sgradevoli, viste terribili. Le cronache dell’epoca parlano di un «lezzo nauseabondo di bruciaticcio» e raccontano di quei primi esperimenti tra il 1872 e il 1875 compiuti sul cadavere di un neonato e sulla carcassa di un grosso cane (ci vollero due ore per ridurla in cenere) nonché di quelli di Friedrich Siemens a Dresda su animali ancora più grandi. La prima cremazione moderna in Italia avvenne a Milano nel 1876 sulla salma di Alberto Keller, un industriale di origini tedesche che aveva disposto l’impiego di parte consistente della sua eredità per la costruzione di un forno crematorio che di qui iniziasse la sua attività. A questo punto la storia si intreccia con quella di alcuni grandi nomi del Risorgimento. L’uomo che avrebbe dovuto occuparsi del forno di Keller, Gorini, rifiutò l’incarico perché era impegnato con la complicata vicenda connessa all’imbalsamazione di Giuseppe Mazzini (la vicenda è ben raccontata nel libro di Sergio Luzzatto La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, edito da Rizzoli). Si fece ricorso allora a Polli e Clericetti, che dovettero attendere l’insediamento al ministero dell’Interno di Giovanni Nicotera, un ex mazziniano che aveva preso parte alla spedizione di Sapri e successivamente alle imprese garibaldine di Aspromonte e Mentana, per poi passare alla sinistra costituzionale e diventare ministro, proprio quell’anno, il 1876, in cui cadde la destra storica e giunse al potere la sinistra guidata da Agostino Depretis. Nicotera autorizzò la costruzione del forno e la cerimonia con la quale esso fu poi inaugurato fu di grande portata. Da quel momento si procedette in modo assai più spedito con la sperimentazione dei forni collettivi per i cadaveri rimasti sul campo di battaglia, le vittime di epidemie o i corpi usati per le sperimentazioni anatomiche. Si diffuse l’uso di forni mobili, destinati a servire quei comuni che non potevano permettersi un crematorio tutto per loro. L’architettura si applicò a celare gli aspetti più impressionanti del rito e, ad un tempo, a conferire carattere di sacralità alla cerimonia di cremazione, incentrandosi soprattutto sugli alti camini che, oltre a smaltire i fumi, dovevano servire per tutto il cimitero da punto di fuga prospettico verso il cielo. I disegni più celebri restano quelli di Etienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux. Lo stile, scrive Canella, «il vocabolario formale e simbolico cui l’architettura della cremazione ricorse per rivestire la nuova tipologia pubblica, la nuova funzione civile della cremazione, fu il linguaggio eclettico, un linguaggio comune a gran parte dei paesi occidentali, risultante dal ricorso più o meno coerente e meditato al neoromanico, al neorinascimento, al neobarocco, al neogreco, al neofloreale e persino a un ritardato neoclassicismo, attraverso la fusione dei singoli richiami in un ibrido stilistico o l’utilizzo di ogni stile per una precisa tipologia funzionale (neoclassico, neobarocco e manierismo per edifici direzionali, neorinascimentale e floreale per residenze di lusso ed edifici commerciali, neoromantico per interventi assistenziali, neogreco e neoegizio per monumenti funebri)». Riflessioni opportune dal momento che, denuncia giustamente l’autrice, l’architettura della cremazione in Italia ha subito una vera e propria rimozione da parte della storia dell’architettura stessa, tant’è che non esiste neanche una pubblicazione che abbia riportato disegni, foto o relazioni riguardo ai templi crematori. Neanche una. Gli unici libri a cui si può fare riferimento sono La crémation en Italie et à l’étranger de 1774 jusqu’à nos jours di Gaetano Pini, pubblicato a Milano nel 1884, e il capitolo dedicato ai crematori nel secondo volume del Manuale dell’architetto di Daniele Donghi, stampato nel 1925. Nient’altro. Nei primi crematori «l’ara venne posta vicina o nella stessa sala delle cerimonie perché si potesse assistere a tutto il rito; al contrario nei crematori moderni la parte tecnica della cremazione avviene in locali separati e preclusi alla vista dei dolenti». Fu «criticata la presenza del camino, necessario alla combustione e alla eliminazione dei fumi, poiché richiamava l’immagine delle officine e degli edifici industriali». Obiettivo degli architetti, anche per contrastare l’offensiva della Chiesa, era quello di «dare all’atto e alla cerimonia della cremazione quella sacralità che si temeva venisse perduta nel rito dell’incinerazione della salma e ciò doveva avvenire innanzi tutto con l’edificazione di un ambiente adatto, ma anche con la decorazione, l’allestimento, le musiche sacre e le orazioni funebri». Milano fu la città pioniera della cremazione, Lodi ne fu il più importante laboratorio. Roma fu la città che fece più resistenza; il «tempio» progettato dall’ingegnere Salvatore Rosa, inaugurato nel 1883, fu caratterizzato da «una forte suggestione neoegizia nelle forme e nei simboli scolpiti, che richiamano la tradizione iconografica della massoneria». Stesso discorso vale per Brescia: anche qui le resistenze furono fortissime. Il forno fu inaugurato nel 1883, a differenza di Roma tutto era semplice, essenziale e al centro si elevava un frontespizio triangolare.
Nel Novecento la pratica dell’incinerazione si diffuse in tutta Europa e il libro si sofferma sulla modernità dei templi crematori di Londra, Parigi, Strasburgo, Zurigo, Lugano. E di quelli di Dresda e Amburgo progettati dal grande architetto Fritz Schumacher (peccato che nel libro non siano menzionati altri forni crematori che resero tristemente celebre la Germania nella prima metà del Novecento). È menzionata invece, sia pure solo per inciso, l’ostilità del fascismo italiano nei confronti della cremazione in quanto «cavallo di battaglia della massoneria» alla quale il regime era fortemente ostile. Si ricorda infine che dopo quasi un secolo da quella battaglia la Chiesa cedette e con il decreto del Santo Uffizio dell’8 maggio 1963 – decreto contenente l’Istruzione della Suprema Sacra Congregazione De Cadaverum Crematione – modificò la sua posizione, concedendo, con l’articolo 61, che se la cremazione non veniva scelta in aperta offesa al mondo cattolico e in chiara negazione dei dogmi cristiani, non era «cosa intrinsecamente cattiva o di per sé contraria alla religione cristiana».
La battaglia cremazionista nacque come rivolta contro lo stato delle sepolture urbane indiscriminate
In principio fu Shelley, nel 1822. Poi la legge napoleonica impose i cimiteri fuori città Da allora la storia della fede s’intrecciò con l’igiene pubblica
La prima cremazione moderna in Italia avvenne a Milano nel 1876 sulla salma dell’industriale Alberto Keller
Maria Canella «Paesaggi della morte. Riti, sepolture e luoghi funerari tra Settecento e Novecento», Carocci editore, pp.240, 23. Nel volume, dedicato al contesto italiano, si affrontano da un lato le grandi tematiche quali il dibattito sulla nascita dei cimiteri, le posizioni della Chiesa, l’intervento dello Stato; dall’altro sistematici approfondimenti su casi specifici dal valore esemplare.
«Corriere della Sera» del 13 luglio 2010