Riportiamo di seguito il breve saggio “TRA FANTASIA E REALTÀ, UNA BREVE RICOGNIZIONE DEL CONCETTO DI MORTE” a firma di Giuseppe Pasero, tratto dal blog POLITICAMENTECORRETTO.COM, pubblicato in data 30 luglio 2010.
“L’animale che vive senza tema d’annientamento…sorretto dalla coscienza d’essere egli la natura medesima, e come lei eterno” (1)
L’uomo, a torto o ragione, ha incontrato e continua a trovare molte difficoltà ad identificarsi con il pur nobilissimo animale citato da Schopenhauer. Al contrario, la morte occupa un posto del tutto centrale nella riflessione che l’Umanità ha progressivamente sviluppato allo scopo di comprendere meglio sé stessa oltre che la propria collocazione sulla scena del mondo. Di volta in volta temuta (l’orrida morte), benevolmente accolta (bella morte, pietosa / tu sola al mondo dei terreni affanni), sportiva e vezzeggiata come quella cantata dai piloti da caccia (“Quando, nel cielo, incontri la morte / girale intorno e falle la corte”), fusa nell’Eros più estremo (morte orgasmica e rapinosa); o, ancora, altissima ispiratrice di straordinarie opere d’arte (morte estetica), di vertiginose riflessioni teologiche e filosofiche (morte speculativa) o di comportamenti eroici, simbolici e sacrificali (morte religiosa, gloriosa o di solidarietà sociale), la morte costituisce uno degli argomenti più intriganti, controversi e coinvolgenti. Domanda senza risposta o enigma dalle infinite soluzioni, la morte continua a tenere autorevolmente banco tra gli argomenti che occupano la fantasia, le emozioni, i sentimenti e l’intelligenza dell’uomo. Proprio per questo crediamo necessario collocare questo grande tema in uno scenario credibilmente storicizzato e lo faremo adottando in primo luogo un approccio di tipo antropologico, formulando, contemporaneamente qualche ipotesi che favorisca un primo orientamento in questo territorio così complesso.
Crediamo di poter affermare, senza urtare alcuna sensibilità scientifica, che l’incompletezza delle conoscenze di cui disponiamo rende assai difficile procedere in due direzioni che, pure, appaiono immediatamente fondamentali e necessarie:
una, di natura metodologica, è quella che vuole verificare la possibilità di fondare una scienza unitaria della coppia vita-morte e non già dei due termini separatamente considerati. Solo la presa di coscienza dell’impossibilità di separare ciò che può essere compreso esclusivamente come inscindibile bipolarità, può consentirci di affrontare correttamente le questioni inerenti la morte e le scelte sociali ed individuali ad essa inerenti.
l’altra, di profilo strettamente esistenziale, è quella che ci porta a considerare l’oggetto di queste pagine in quanto intrinsecamente ed organicamente connessa all’esperienza umana individuale e, in questo senso, ancora una volta racchiusa ed esperita all’interno dell’unico spazio-tempo in cui si dipana il binomio citato poco prima: vita – morte
Proprio da questa duplice difficoltà nasce l’esigenza di affrontare il fenomeno ricorrendo a discipline diverse, nelle loro differenze ci rammentano quanto la cultura occidentale, che costituisce peraltro il nostro orizzonte di riferimento, abbia trattato la morte in modo non sistematico. Ne ha fatto progressivamente un fenomeno a sé, fortemente contrassegnato da tabù e proibizioni che lo hanno artificiosamente e sempre di più separato dall’altro termine, la vita, insieme a cui dovrebbe costituire, al contrario, un circuito solidamente chiuso. Ci rendiamo conto di quanto la prospettiva che stiamo perseguendo possa sembrare ambiziosa o addirittura presuntuosa, ma crediamo che valga la pena tentare e che sia possibile delineare i principi basilari di una disciplina che consideri il vivere bene come uno dei poli di un sistema in cui il bene morire costituisca l’altra necessaria ed irrinunciabile polarità. Non sappiamo che nome attribuire a tale disciplina, ma pensiamo che si possa intanto qualificarla come una specifica Filosofia dell’Uomo, in grado di farci comprendere meglio la vita attraverso una maggiore conoscenza della morte e viceversa. Potrebbe aiutarci ad avere una visione più realistica di quest’ultima, a temerla di meno, e contemporaneamente, ad apprezzare e rispettare di più la vita in noi stessi e negli altri. Lungo questa direzione, e in coerenza con quanto abbiamo detto fin qui, cominciamo col porre qualche domanda, intanto, su un duplice piano: quello dei comportamenti con cui esprimiamo ciò che di volta in volta suscitano in noi la morte e gli eventi, pubblici e privati, che ad essa sono connessi. Passeremo poi a quello più strettamente medico-scientifico.
I COMPORTAMENTI SUSCITATI DALLA COMPARSA DELLA MORTE
I sentimenti e le riflessioni sollecitate dall’affacciarsi della morte di un ben precisato individuo assumono, com’è facilmente rilevabile, due fisionomie fondamentali. La prima è quella più immediata della manifestazione del dolore, espresso secondo una gradazione d’intensità proporzionale alla distanza affettiva ed emotiva che legava i diversi soggetti coinvolti a colei o colui che in una mescolanza unica di assenza-presenza occupa il luogo centrale del cerimoniale funebre nelle sue diverse manifestazioni. L’altra, è rappresentata dalla rielaborazione emotiva e cognitiva dell’evento, che i soggetti compiono attraverso un dialogo successivo con sé stessi e con qualche altra persona cui sono legati da particolari rapporti di affettività e di stima.
La manifestazione del dolore
Complessivamente, al di là delle manifestazioni di dolore affidate al silenzio o all’urlo disarticolato, ci si trova di fronte a tentativi più o meno sofisticati di ricondurre la gravità dell’evento a livelli tollerabili tanto sul piano cognitivo quanto su quello emotivo. Fra le varie strategie messe in atto a tale scopo, un ruolo centrale è occupato dalla raccolta di testimonianze sulla sofferenza che ha preceduto e accompagnato il momento cruciale del trapasso, quello in cui la Vita di quel soggetto è giunta alla fine. Nel momento in cui sembri accertata una quota di sofferenza molto bassa, o ad ogni modo sopportabile secondo scale di misurazione empiricamente accettate, il dramma assume toni e sfumature che, progressivamente, respingono sullo sfondo l’evento in sé per attribuire una crescente importanza a coloro che sono sopravvissuti, alle condizioni affettive, economiche ed in senso lato sociali in cui essi si troveranno. Il recupero progressivo di contatto con il sociale e con la realtà fattuale sembra costituire il percorso più affidabile per affrontare e risolvere le questioni che la morte pone a ciascuno di noi. In questo senso ci sembrano del tutto condivisibili e attuali le parole di Sigmund Freud : “Il lutto subentra sotto l’influenza dell’esame della realtà, il quale richiede categoricamente che ci si debba distaccare dall’oggetto, dato che esso non esiste più. Il lutto deve ora eseguire il lavoro di perseguire questo ritiro dall’oggetto in tutte le situazioni in cui l’oggetto era stato fatto segno a un’alta carica.” (2) Sotto questo profilo, l’interesse per colei o colui che non è più fisicamente tra noi si configura come un potenziale emotivo e affettivo eccedente. Privo dell’oggetto primario di destinazione, si modifica e, più o meno lentamente, si indirizza verso qualcosa d’altro, che riguarda sempre meno la persona in quanto tale, e in misura sempre maggiore la qualità delle condizioni in cui ha vissuto la propria vita fino alla fase terminale della propria irripetibile soggettività. Nel momento in cui sperimentiamo il dolore nella forma dell’irreversibilità, recuperiamo, e forse talvolta scopriamo, le reali declinazioni dell’amore che ci lega a coloro che ci sono cari e, in ultima analisi, a noi stessi. Emerge così a questo punto, crediamo, una domanda relativa al significato che vogliamo attribuire a quest’ultima affermazione. Nel momento in cui diventa evidentemente impossibile interagire con chi non è più, e al contempo coloro che ancora sono presenti ci ricordano in modi diversi la necessità di prendere le distanze dall’evento doloroso, si configura inevitabilmente un processo di ricanalizzazione dell’affettività non più tributabile alla persona scomparsa verso nuovi bersagli, e, in questo senso, anche verso noi stessi. Interrogandoci sulla qualità delle condizioni in cui l’evento-morte è maturato, nell’impossibilità di interrogare chi non può più risponderci e nella coscienza della nostra impossibilità di intervenire per modificare ciò che ormai è irrimediabilmente accaduto, continuiamo a porre gli stessi interrogativi. La loro importanza, però, si mantiene o addirittura aumenta quanto più noi stessi diventiamo protagonisti di quelle interrogazioni e, sia pure temporaneamente, in qualche modo sembra ridursi la distanza dall’evento che occupa prepotentemente la nostra ragione e la nostra fantasia. In questo processo, che si potrebbe definire di reindirizzamento della libido e che si configura come un’operazione di rielaborazione dell’evento, gli interrogativi che poniamo assumono una finalizzazione specifica, che si discosta sensibilmente dal bisogno di manifestare il dolore, pur contribuendo contemporaneamente a metabolizzarlo ed a renderlo sopportabile. Crediamo sia importante capire meglio che cosa accada in questa fase, e tenteremo di farlo nel prossimo paragrafo.
La rielaborazione dell’evento
Come già abbiamo precedentemente affermato, questa fase si sviluppa tanto sul versante emotivo quanto su quello cognitivo e queste due dimensioni sono organicamente interconnesse da quel reindirizzamento verso noi stessi della libido eccedente di cui abbiamo parlato poche righe sopra. Il raccoglimento con noi stessi o il dialogo con interlocutori liberamente scelti ci consente di affrontare l’evento-morte in una condizione di sostanziale libertà da condizionamenti socialmente pressanti, quali sono per l’appunto quelli che accompagnano i cerimoniali del lutto. In questo senso il raccoglimento facilita l’avvio di un percorso che mira allo scioglimento di una questione fondamentale. Ci rendiamo conto, in quei momenti, dell’importanza vitale di riflettere non soltanto sulle condizioni della nostra vita intesa come sequenza di eventi che si arresterà di fronte al comparire della morte, ma anche dell’utilità di considerare la morte come qualche cosa che appartiene intrinsecamente alla nostra vita, e che quest’ultima può dirsi veramente e liberamente nostra solo nel caso in cui riusciamo, per così dire, ad inglobare ed a fare dell’evento-morte qualche cosa che altrettanto sostanzialmente ci appartiene; in altre parole, portando quell’evento all’interno di un territorio in cui il libero arbitrio sia pienamente in atto, in cui sia possibile sentirsi liberi di agire con serenità e dignitosamente, in modo conforme alla propria intenzionalità. Se quanto siamo venuti dicendo fin qui risulterà convincente o quantomeno tale da meritare un esame rigoroso, possiamo ipotizzare che il nostro discorso conduca ad un’equazione tanto semplice quanto importante. Ragionare intorno ai modi ed alle regole attraverso cui diventi possibile ri-appropriarsi della propria Morte (e torneremo poche righe più oltre su questo argomento), rivendicando il diritto di intervenire per modificare le condizioni in cui essa potrebbe manifestarsi attraverso un decorso puramente “naturale”, significa lavorare contemporaneamente su due concetti: Libertà da un lato e qualità di Vita-Morte dall’altro, con tutte le implicazioni che questo comporta. La rielaborazione stessa dell’evento ed il reindirizzamento della libido che ne costituisce la componente fondamentale si configurano così a loro volta come una riflessione che travalica l’argomento specifico ed apre una prospettiva più ampia, che implica, oltre allo scenario medico-scientifico, anche quello morale, etico e politico che ciascuno di noi, consapevolmente o inconsapevolmente, immagina e desidera. Ci limitiamo ad anticipare che tratteremo questo specifico argomento nel prossimo capitolo, mentre ora vogliamo precisare meglio che cosa significhi, nella nostra prospettiva, ri-approppiarsi della propria morte. Crediamo in questo senso che il rapporto dell’uomo con la Morte e con la Vita sia storicamente arroccato su un’ambivalenza di fondo che probabilmente continuerà ad accompagnare, con sorti alterne, l’evoluzione della nostra specie e della nostra cultura. Vorremmo però stabilire un punto fisso, su cui si fondare tutto il nostro impianto metodologico: l’interesse dell’uomo, l’intensità del suo coinvolgimento, la volontà di penetrare con ogni mezzo ed a qualunque costo il “segreto della Morte”, può essere veramente compreso soltanto alla condizione di includere quest’ultimo nella bipolarità di cui abbiamo già lungamente parlato. Il “segreto della Morte” è indissolubilmente connesso al “segreto della Vita” e ciascuno assume la propria perspicuità soltanto in relazione e grazie all’altro; crediamo si possa affermare a buon diritto che solo la conoscenza dell’uno consenta di attingere alla conoscenza dell’altro. Nella fase di rielaborazione dell’evento, crediamo che in particolare all’interno della cultura laica in cui ci riconosciamo, diventi progressivamente evidente il significato di quell’affermazione. Contemporaneamente, diventa altrettanto evidente la latitanza della nostra cultura nell’indagine delle aspettative e delle motivazioni che ipotizziamo esistano in relazione al fenomeno della morte esattamente così come esistono connesse a quello della vita. Nella percezione comune sembra anzi che la morte delimiti un territorio così radicalmente altro, da vedersi preclusa la possibilità di declinare un proprio specifico modello motivazionale di riferimento. Sembra, in altre parole, che in questo territorio possa esistere una sola, semplicissima sorta di anti-motivazione: dimenticare la morte, per quanto possibile denegarla, respingerla verso le nebulosità di uno sfondo da cui emergergerà, ci si augura, improvvisa, invisibile e silenziosa. Tutto è sostanzialmente affidato alla speranza, mentre diventa del tutto illusoria la possibilità di individuare un principio da cui derivare decisioni e comportamenti ragionevoli, criticamente riconoscibili come i più idonei a gestire l’eventuale quanto frequente manifestarsi, più o meno rumoroso, dell’evento tanto temuto. Alla luce di queste considerazioni, crediamo di poter procedere ad un ulteriore passaggio. Abbiamo detto prima che tutta una serie di interrogativi diventa più importante nel momento in cui il manifestarsi della morte in altri soggetti ci spinge a riflettere sulla necessità che tale evento si manifesti anche nella nostra propria esperienza esistenziale. Il riflettere con particolare intensità al fatto che la morte apparirà anche al nostro orizzonte induce ad attribuire un’altrettanto particolare interesse alle condizioni in cui farà la propria comparsa, rendendo comporaneamente più facile, almeno per un numero sempre crescente di persone, l’intrinseco legame esistente fra il vivere bene ed il morire bene. In ultima analisi, il morire considerato come un fenomeno a sé, diventa a buona ragione sempre meno preoccupante rispetto ai modi in cui potrebbe affacciarsi la nostra propria Morte. Crediamo che lo strumento più affidabile per un’indagine sui processi soggettivi che guidano queste riflessioni debba essere la psicologia, ed in particolare la psicologia motivazionale. Abbiamo già proposto in un nostro precedente lavoro una teoria motivazionale della malattia (3) ed in quell’occasione abbiamo dovuto fare i conti con la pressoché totale assenza di studi specialistici dedicati ai rapporti che la persona malata sviluppa con la malattia, con gli altri, con i medici, gli infermieri e le istituzioni sanitarie. Affermavamo allora, in sintesi, che sarebbe metodologicamente scorretto identificare la guarigione come unica motivazione della persona malata trascurando quasi completamente l’importanza della complessiva qualità di vita che ci attende al termine del percorso terapeutico. In quell’occasione sottolineavamo l’inaccettabile semplificazione che caratterizza normalmente il modo in cui anche soggetti culturalmente sensibili e preparati leggono la struttura motivazionale del rapporto tra la persona malata e la malattia; oggi, in un momento in cui affrontiamo un argomento più complesso, coinvolgente e, saremmo per dire, più intrigante, proponiamo ai nostri lettori le riflessioni che da quel precedente lavoro sono scaturite. Esse ci consentono di delineare, nelle prossime pagine, un profilo credibile della struttura motivazionale attivata dal pensiero della morte, così come esso ci appare nella fase che abbiamo definito di rielaborazione dell’evento.
(1) A. Schopenhauer, “ Il mondo come volontà e rappresentazione”, Laterza 1968, vol. II, p. 374
(2) S. Freud, “Inibizione, sintomo, angoscia”, Boringhieri, Torino, p. 112
(3) A questo proposito vedi : G.Pasero e P.A. Ravazzi, “Per un sistema sanitario centrato sulla persona”, Franco Angeli, Milano, 2006Giuseppe Pasero
Libertà ed Eguaglianza