Dopo gli eccessi di edilizia cimiteriale nella seconda parte del Novecento, figli in gran parte del boom economico, e di un certo cattivo gusto per la ricchezza ostentata, bisogna ripensare il ruolo strategico del camposanto, inteso come sintesi di forma e funzione (deve accogliere anche i vivi e permettere ai dolenti di socializzare) affinché le plaghe del dolore, racchiuse dalle mura del camposanto, diventino per tutti veri luoghi in cui ritrovarsi, contesti con servizi rispettosi e funzionanti, lande malinconiche in cui la memoria, di chi è vivo, si accompagni al ricordo di chi non c’è più, in un autentico istante di pace cristallizzato nel tempo.
Di fatto i cimiteri italiani, da molti decenni, ormai, non si basano più sull’inumazione in campo comune, che è pratica residuale,[1] quindi bisognerà ripensare la ripartizione degli spazi e la durata del periodo legale di sepoltura (ai sensi del DPR 254/2003 la durata minima della tumulazione può già esser abbreviata a 20 [2] anni).
In questi primi anni ’20 del XXI Secolo, a causa delle estumulazioni di massa, per la naturale scadenza [3] delle concessioni di sepolcri, dati in uso già negli anni ’90 ed anche oltre, se immaginiamo come – allora – fosse diffusa la tipologia della concessione del posto singolo trentennale, aumenterà notevolmente il bisogno di quadre ad inumazione (soprattutto per la sepoltura degli inconsunti) e la richiesta di cremazione.
Di conseguenza occorreranno molte cellette ed ossarini per la tumulazione di urne e cassette per resti ossei.
Nell’evoluzione cronologica dei regolamenti di polizia mortuaria, via via emanati da inizio secolo, si può constatare come la forma di sepoltura allora minimale, ossia la tumulazione (circa 2-3% nel 1900), fosse per lo più effettuata in cappelle gentilizie, con il compito di perpetuare la memoria dei defunto, conservandone le spoglie.
Il sistema di tumulazione era, infatti, naturalmente agganciato alla perpetuità dei sepolcro (abolita per le nuove concessioni per l’intero Paese col DPR n.803/1975 solo dal 10/02/1976) ed a modalità di confezionamento del feretro e del vano salma favorenti la conservazione, più che la scheletrizzazione (loculo stagno, cassa metallica ermetica).
L’equilibrio [4] gestionale dei cimiteri di inizio secolo, concepito su turni di rotazione decennale dei campi comuni a sistema di inumazione [5], è andato in crisi soprattutto nella seconda parte del XX secolo, con la diffusione di massa delle tumulazioni individuali (in loculo a colombario) e familiari (in tomba privata a due o più posti salma).
Questa filosofia tipicamente italiana del cimitero monumentale fondato sulla pratica della tumulazione, spesso in concorso con fenomeni di forte rallentamento (o, addirittura inibizione) dei tempi di mineralizzazione, ha determinato un’esponenziale compressione dell’area cimiteriale, causata dalla fortissima contrazione dei posti feretro disponibili.
In altri termini, si è determinata una sorta di selvaggia saturazione dei cimiteri, la cui conduzione, ancorché responsabile, da parte del comune, si trova spesso anche nelle condizioni di non essere suscettibile di grandi alternative o margini di manovra: si pensi all’impatto dimensionale sul territorio che comporta la costruzione di un nuovo cimitero, ma anche alle difficoltà di ampliamento dei cimiteri esistenti, rispetto a cui l’erosione della fascia [6] di rispetto sembra essere divenuta la sola direzione possibile da intraprendere per estendere le superfici da adibire a sepolture, vedasi, da ultimo l’art. 28 della L. n. 166/2002.
[1] La cremazione erode quote importanti del sistema di sepoltura ad inumazione, mentre i suoi riflessi sono più affievoliti sulla tumulazione.
[2] Molti comuni cominciano a considerare ordinaria l’estumulazione richiesta dopo i 20 anni di tumulazione magari per la verifica sullo stato di mineralizzazione del cadavere finalizzata alla raccolta dei resti ossei
[3] La situazione si aggraverà per quei comuni, che hanno deciso di non rinnovare le concessioni e non sono dotati di un proprio impianto di cremazione poiché mancherà loro la possibilità di “spalmare” il problema degli inconsunti tra inumazione in campo di terra, ricorso sistematico alla cremazione e ritumulazione provvisoria, al fine di guadagnar tempo e smaltire i resti mortali in modo più diluito nel tempo, attraverso la rotazione dei campi di terra o l’incinerazione.
[4] Il meccanismo delle inumazioni di massa, delineato dal Regio Decreto N. 42 del 1890 da quello successivo n. 448/1891 e dal Regio Decreto n. 1880 del 1942, seppur rudimentale, era dotato di una sua intrinseca efficienza; le vere noie cominciano a sorgere quando all’impianto preesistente si sovrappone, prima in sordina poi con incidenza esplosiva, la tumulazione.
[5] Originariamente, si stimava che fossero necessari 6 anni, poi, ed abbastanza presto, elevati agli attuali 10 anni.
[6] Dal 2000 in avanti si sono registrati diversi provvedimenti normativi, volti a ridurre le fasce di rispetto per alimentare l’edilizia cimiteriale: il primo atto è l’art. 4 L. 130/2001, anche se si trattava di un intervento ben limitato, in quando permetteva – ai soli cimiteri per urne – di eccedere la zona off limits dei 200 metri fissati dall’Art. 338 del testo unico, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265. Poi è la volta dell’art. 28 L. 1° agosto 2002, n. 166, cioè il c.d. “Collegato alla legge finanziaria 2002 in materia di infrastrutture e trasporti”, che interviene con una radicale modifica delle norme in materia di fasce di rispetto cimiteriali, principalmente con la modifica dell’art. 338 TULLSS (e, anche, con l’abrogazione di parte dell’art. 57 dPR 285/1990). Non ci si diffonde ulteriormente sul fatto che questa nuova norma abroghi, nei fatti, il sopraccitato art. 4 L. 130/2001. Successivamente anche Lombardia ed Emilia Romagna si sono pronunciate in tema di riduzione controllata delle fasce di rispetto.