Un rapporto tranquillo con la morte

ImageEstratto dal capitolo 15. Un rapporto tranquillo di Napoli a piena voce, annuario della redazione di Napoli Monitor pubblicato nell’ottobre 2012 da Bruno Mondadori.

Giovanni Errico lavora al cimitero nuovo di Secondigliano. Per più di quarant’anni ha svolto, ogni giorno della sua vita, il compito di seppellitore. Da un anno circa è in pensione, ma continua ad andare al cimitero tutti i giorni, per dare il suo apporto a una cooperativa che si occupa della sepoltura dei defunti e della gestione di alcune cappelle. Qui, al “nuovo”, Giovanni lo conoscono tutti. In mancanza di un vero ufficio, il portabagagli della sua auto funge da scrivania per preparare documenti, annotare dati, raccogliere cartelle. Comincia a raccontarsi sulle scale ai piedi di una piccola cappella, ma dopo qualche minuto è necessario spostarsi. La signora bionda che è venuta a portare i fiori al marito non vorrebbe: “Mi fa piacere, gli avete fatto compagnia fino a ora”, ma è giusto lasciarla sola. Qualche metro più in là, ci sono altre scale di un’altra cappella in marmo, così uguale e così diversa da quella precedente.

Io e la morte abbiamo un rapporto tranquillo. D’altronde non potrebbe essere altrimenti per uno che lavora da più di quarant’anni al cimitero. Ero ragazzino quando cominciai a fare il seppellitore, lavoravo con mio padre che aveva preso il posto nel dopoguerra. Oggi siamo rimasti una ventina in tutta la provincia. Il fatto è semplice, per me la morte fa parte della realtà, non è nulla di così strano: tutte le cose finiscono, e anche la vita. Poi io sono molto credente, e quindi penso che la morte sia solo la parte di un percorso che poi continuerà. La vita è un’altra parte di questa cosa, ma deve finire a un certo punto, come finisce tutto.

Così come è successo a me, la maggior parte dei seppellitori e degli impiegati del cimitero sono figli di quelli che ci stavano prima. Sia per quanto riguarda quelli assunti dal comune, che per quelli che lavorano nelle cooperative, che sono più giovani. Credo che una delle ragioni sia il fatto che non è un lavoro facile, e ancora di più non è un lavoro che si può cominciare così, da un momento all’altro. Io sono entrato che tenevo tredici anni, però è come se a quella vita avessi sempre partecipato, perché tenevo papà, e quindi a casa se ne parlava, già sapevo che cosa voleva dire. Eppure, anche a quell’epoca, piglia un ragazzino di tredici anni da mezzo alla strada e mettilo a lavorare al cimitero con i morti. Non è una cosa facile, tanto più che all’epoca non c’erano misure di sicurezza, né igieniche. Tutto quello che ti davano erano una corda, una pala e una zappa. E basta così. Oggi invece ci sono le scarpe dell’antinfortunistica, le saponette e il disinfettante per pulirti, diversi tipi di guanti e di tute, cose che sembrano normali ma fino a pochi anni fa non esistevano. Una cosa che fa capire come è cambiato il lavoro è la fine che fanno le casse di risulta. Oggi ci sta una ditta apposita che le preleva e le porta agli inceneritori, mentre prima si salivano a mano fino a dove ora ci sta la cappella “Risorgeremo”, e si bruciavano così, all’aria aperta con la benzina.

L’impatto con il lavoro è stato duro, anche perché, fino a quando non sono stato assunto, facevo una cosa che non potevo fare. Non mi posso mai scordare i giorni in cui venivano l’assessore o l’ispettore del lavoro e dovevo scappare e nascondermi dentro al cimitero, dietro alle tombe, perché là non ci potevo stare. E poi era una cosa faticata. Nel ’74 si lavorava dalle otto del mattino fino alle quattro, le cinque del pomeriggio, a seconda di quello che c’era da fare. Oggi, che pure il lavoro è molto meno pesante, perché ci sono le tecnologie, a cominciare dalle macchine per il trasporto, si lavora solo sei ore. Ma non è che faccio il vecchio che rimpiange i tempi antichi, eh? È giusto così, perché il lavoro non è facile, né riposante.

Quando cominciai con papà, negli anni Sessanta, funzionava che una volta finita la scuola dovevi fare una scelta, però farla seriamente e mantenerla: a me non andava di continuare a studiare, e la soluzione più naturale fu quella di lavorare con mio padre. Quando sei ragazzo ti butti a fare le cose, non stai tanto a pensarci. Il lavoro è particolare, ma è quello che mi ha permesso di far vivere onestamente la mia famiglia, e questa è la cosa più importante. Ma non è un lavoro che puoi fare se non ti piace. Prima di tutto perché hai a che fare con le famiglie che stanno vivendo il dolore. E poi, pure per le condizioni in cui lo fai. Me lo ricordo bene quando ero giovane e andavo a prendere i morti che stavano giù in deposito. Non ci stavano le celle frigorifere, allora se la salma era rimasta per più di quarantotto ore là dentro era una tragedia, a cominciare dalla fuoriuscita dei liquidi, che è una cosa bruttissima, e poi per la pulizia che dovevi fare con le pompe, che all’epoca non era nemmeno così approfondita.

Con i soldi che mio padre mi passava dallo stipendio, per i primi dieci anni che non ero assunto, mi potevo permettere qualche sfizio, anche se quando parlo di sfizi non pensare a chissà cosa, io intendo le cose semplici che la vita di allora ti permetteva: la pizza al Trianon, il cinema ogni tanto, le sigarette, e mi comprai pure la bicicletta. Abitavamo a Foria, al vico dei Saponari, dove sta la caserma Garibaldi. Poi nel ’74 presi ufficialmente il posto, sempre qua, al cimitero nuovo, che è stato costruito all’inizio degli anni Sessanta. Il primo stipendio era di centosedicimila lire, che non era male, e come ho detto mi ha permesso di vivere abbastanza bene e di fare quattro figli. Il primo è arrivato nel ’78 e poi subito tutti gli altri, così dopo pochi anni avevo già una bella famiglia da mantenere. Ho tre femmine e un maschio, che è nato nell’86, e adesso si sta per laureare in architettura. Sono contento che abbia scelto questa strada, però allo stesso tempo deve avere chiaro quale è stata la vita dei suoi genitori, e cosa significa veramente lavorare. Una grande gioia me l’ha data quando per un esame all’università ha presentato un progetto sulle aree cimiteriali, che tra le altre cose è piaciuto molto. È bello, perché ti fa capire che ha compreso di quale pane ha mangiato per tanti anni. Però sono contento che non gli è venuto in mente di continuare il mio lavoro.

Certe cose, comunque, anche senza studiare, le ho imparate pure io. Una molto importante, che mi ha insegnato questo lavoro, è imparare ad avere a che fare con persone di tutte le classi sociali. Qua viene la famiglia nobile, quelle che ci stanno ancora, i baroni, i marchesi, e ci viene la gente del popolo, ma io ho imparato come ci si deve comportare con tutti. Oppure, quando seppellisci qualcuno che è stato sparato, che ne so, il figlio di un boss che se lo vedi al telegiornale hai pure un certo tipo di atteggiamento, e invece davanti alla cappella sono tutti uguali: tua madre, tuo padre, e pure il figlio del boss perché la morte è uguale per tutti. Alla fine, se ci pensi, aveva ragione Totò… La signora che viene dal quartiere popolare fa la stessa fine del grande nobile, quando arriva quel momento sono tutti e due uguali, e anche al grande signore lo sto atterrando io che sono una persona semplice.

Il rapporto della gente con il cimitero è cambiato, e in un certo senso va bene così. Prendi la cremazione: oggi la gente ha capito che è una cosa che agevola, che rende tutto più pratico. Ma spiegami tu perché un giovane dovrebbe sottoporsi a vedere tutte quelle cose: scava la fossa, tira fuori il morto, pulisci, quando i defunti si possono far cremare! Oggi se vieni qua il sabato mattina, certe cose che vedevi fino a qualche anno fa non le vedi più, e penso alla vecchietta che arrivava, che magari non teneva le scarpe ma doveva portare sulla tomba del marito un mazzo di fiori enorme trascinandosi il nipotino appresso, che rimaneva impaurito, attaccato al mantesino della nonna… Per quanto mi riguarda, anche prima che la chiesa dicesse che andava bene la cremazione, che fino a qualche anno fa era considerata peccato, io ero favorevole. Anche perché nelle scritture si dice che cenere siamo e cenere ritorneremo. In realtà, devo dire che l’ho sempre pensata così perché sapevo che cosa significava quella roba, e quindi avevo le idee più chiare. Quello che mi dispiace è che con il passare degli anni, a questo ritmo, il cimitero finirà, e così anche il lavoro di chi sta qua. E non è una questione sentimentale. Lo ripeto, io ho una mentalità moderna e per come la vedo io tutto deve finire. Deve finire la vita, figuriamoci se non deve finire pure il lavoro di seppellitore. È giusto che sia così. Quello che mi dispiace è che la gente che ancora sta qua, e ci stanno pure i giovani, soprattutto i figli della mia generazione e quindi dei miei amici, tra non molti anni rischiano di trovarsi senza lavoro; anche perché qua sono anni che dicono che deve nascere il forno crematorio, ma i morti ancora li mandiamo a cremare in provincia di Salerno; e prima ancora andavamo a Roma, a Livorno, a Brescia. Insomma, abbiamo fatto fare miliardari a questi con i morti nostri.

Da un punto di vista pratico la vita di chi fa questo mestiere non è molto diversa dalle altre. Certo, ci sono cose che non te le scordi. Tu sei parte del dolore delle famiglie, ed è una cosa che ti porta dei dispiaceri, influisce sulla tua vita quotidiana, sul tuo umore, sui tuoi pensieri. Quante volte abbiamo pensato, magari seppellendo un giovane che era morto di meningite, e all’epoca ce n’erano di malattie e di infezioni del genere, che una cosa così poteva capitare ai nostri figli. Oppure il giorno in cui tuo figlio ti chiede di comprargli il motorino, e tu ripensi a tutti i ragazzi che sono morti in un incidente e hai seppellito con le tue mani… E poi c’è il fisico, perché è un lavoro stancante, anzi fino a qualche anno fa era massacrante. Pensa che nel 1982 sono stato operato di ernia, me ne hanno levate sette, e all’epoca l’intervento si faceva ortopedico, era doloroso. Il fatto è che a quei tempi il lavoro era basato solo sulla forza: scava il terreno, porta le casse sulle spalle… Però dopo quattro mesi, con la mano del Signore, e il bisogno che comunque c’era, dovetti ricominciare, anche se riducendo i carichi di lavoro. Prima facevo anche sette-otto tumulazioni al giorno, me ne fottevo del fisico, anche perché con le mance si arrotondava bene. Non ti dico nel trasporto, era una tragedia perché non c’erano i montacarichi che ci stanno ora nelle cappelle, e dovevi salire e scendere queste scale strette e piccole con le casse sulle spalle.

Il fatto di essere credente è un’altra cosa importante per chi lavora qui. Può sembrare una cosa macabra detta da parte di uno che lavora in un cimitero – uno schiattamuorto, come ci chiamano a Napoli – ma direi quasi che la morte è una cosa bella, perché è la realtà. Però per capirla e accettarla è importante essere credenti, anche perché ti fa pensare sempre che ci sarà qualcosa poi, anche nei momenti più difficili. Io negli ultimi anni mi sono girato l’Europa sopra e sotto, però non sono andato al mare, a pigliarmi il sole, sono andato a vedere le chiese: più volte a Lourdes, poi a Barcellona, e questo settembre sono stato a Parigi. Facendo questo lavoro ho imparato ad avere molto rispetto per le altre religioni, anche perché qui seppelliamo anche gli ebrei, gli evangelici, persone di colore che fanno dei riti che magari possono sembrare un po’ strani, ma danno un senso alla morte: liquori, fiori, preghiere, è il loro modo di viverla. Però se non sei credente, credente in qualsiasi cosa, non so se queste cose puoi capirle.

Proprio il fatto che tutto deve finire rende la vita una cosa che vale la pena di essere vissuta. Tu mo stai qua, stai lavorando, poi finisci, vai a casa e fai un’altra cosa, un’altra intervista, o scrivi l’articolo, però bene o male fai sempre lo stesso. Oppure piglia a me, che ho fatto per quarant’anni sempre lo stesso: la mattina mia moglie mi porta il caffè a letto, poi mi vesto, vengo qua, mi spoglio, mi rivesto e lavoro. Poi mi rispoglio, mi rivesto, torno a casa, e il giorno dopo lo stesso. Però anche quello deve finire, sarebbe assurdo se durasse per l’eternità, uno si scoccerebbe pure, forse. Oggi sto in pensione e lavoro con una cooperativa perché voglio farlo, ma poi finirà anche questo. Finisce il lavoro, finisce l’intervista, finisce il libro che stai scrivendo, finisce persino il cimitero, l’abbiamo detto. E finisce la vita, perché altrimenti sarebbe inutile secondo me. Io ho avuto un rapporto tranquillo con il mio lavoro, e ho un rapporto tranquillo con il cimitero, e con la morte. Quando sarà il momento l’affronterò preparato. La mia vita l’ho vissuta e la sto vivendo. Però una cosa, dopo tanti anni la so: della morte, almeno di quella, non ho paura. (riccardo rosa)

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