Cassazione Penale, Sez. I, 9 novembre 1999, n. 958:
“[…] nel caso di specie il tentativo di distruzione del cadavere non è configurabile, in quanto, mancando la possibilità di verificare in concreto l’effettiva idoneità degli atti, non è possibile stabilire se l’azione posta in essere dall’imputato fosse dotata di efficienza causale idonea al perseguimento dello scopo. Pertanto, poiché manca la possibilità allo stato di accertare con sicurezza gli elementi riguardanti il fatto, si ritiene superfluo il rinvio al giudice di merito, di guisa che l’imputato va assolto dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste.
[…] non era stata fatta la doverosa distinzione tra cadavere e resto mortale come previsto dalla circolare del Ministero della Sanità n.24 del 24/6/1993, secondo la quale i resti del defunto non potevano che essere considerati resti mortali, trattandosi di esumazione avvenuta a distanza di venti anni alla sua morte, tanto più che il perito aveva definito i resti un ammasso di materiale terroso corrispondente allo scheletro assile, contenente vertebre e coste…”.
In data 9/11/1999 la Suprema Corte di Cassazione, nemmeno a sezioni riunite, scrisse la parola fine su di una dolorosa e controversa vicenda umana e giudiziaria relativa all’accusa di aver versato acido corrosivo su una salma inconsunta, mossa da alcuni operatori cimiteriali al proprio caporeparto.
La Suprema Corte assolse l’imputato perché ritenne non sussistente il delitto tentato di distruzione di cadavere, mancando, infatti, la possibilità di verificare in concreto l’effettiva idoneità degli atti che, a giudizio della Corte di Appello di Torino, furono posti in essere dall’imputato.
Nei motivi della decisione, la Suprema Corte rilevò che, per ammissione della stessa Corte di Appello, non è stata raggiunta la prova della somministrazione ai resti mortali dell’acido, infatti la perizia disposta non ne rilevò traccia.
Quindi, anche ammettendo che l’imputato avesse compiuto l’azione, non sarebbe, comunque, stato possibile stabilirne l’efficienza causale idonea al perseguimento dello scopo.
Il giudice della nomofilachia è giunto all’assoluzione dell’imputato dal reato di tentativo di distruzione di cadavere sulla base del seguente ragionamento: vale a dire, il reato tentato è la risultante della combinazione di due norme: una principale (la norma incriminatrice speciale: l’art. 411 c.p. Distruzione di cadavere) ed una secondaria (la norma estensiva, e cioè l’art. 56 Delitto tentato), le quali danno origine ad un nuovo titolo di reato, che è autonomo nonostante conservi il nomen iuris della figura delittuosa a cui si riferisce.
Ora gli Ermellini della Sez. I affermano che, da un lato, non può configurarsi il reato compiuto o tentato di cui all’art. 411 cit., in quanto è da escludersi che l’imputato abbia agito con l’intento di ledere l’interesse giuridico protetto da tale norma, interesse giuridico che va individuato nel sentimento di pietà verso i defunti. Nel caso di specie, infatti, trattandosi di resti mortali esumati a distanza di oltre 20 anni dal decesso, e quindi non di cadavere, non è assolutamente configurabile un delitto tentato ex art. 411.
È doveroso aggiungere che, per anni, la definizione di “resto mortale” è stata molto controversa [1]; prima con la circolare del Min. Salute 24 giugno 1993 n. 24, poi, con la circolare del Min. Sanità 31/7/98 n. 10, si era giunti ad una definizione “amministrativa” del fenomeno, quindi un corpo dissepolto, che, anche se solo parzialmente corrotto dalla putredine, è:
a) “resto mortale” se sono passati 10 anni dalla inumazione;
b) “resto mortale” se sono passati 20 anni dalla tumulazione.
La Suprema Corte mostra di aderire a tale definizione, adottata, a quel tempo, solo con atto istruttivo, e privo di cogenza erga omnes.
La stessa circolare n. 10/1998, ha identificato la tipologia di sostanze autorizzate per facilitare la scheletrizzazione.
La Corte rileva che, nel caso di specie, non sussiste neppure uno dei due requisiti indispensabili alla configurazione del delitto tentato ex art.56 c.p., in altre parole, l’idoneità degli atti posti in essere allo scopo. Come può configurarsi, infatti, un tentativo di distruzione di cadavere laddove non vi sia il cadavere, ma solamente dei resti mortali?
Ma anche prescindendo da ciò, vale a dire anche nel caso in cui si fosse trattato di un cadavere, non fu possibile, attraverso la perizia effettuata, dimostrare che l’eventuale condotta dell’imputato fosse idonea allo scopo di distruzione.
Pertanto, la Suprema Corte, appurato che il fatto non integra gli estremi del reato di tentativo di distruzione di cadavere, ha assolto l’imputato.
Tale assoluzione, motivata dall’aver la Suprema Corte ritenuto superfluo il rinvio al giudice di merito, a causa dell’impossibilità allo stato di accertare con sicurezza gli elementi riguardanti il fatto, ha impedito che venisse di nuovo valutata l’attendibilità delle dichiarazioni di correità rilasciate dagli operatori cimiteriali coinvolti e delle dichiarazioni di innocenza rilasciate dall’imputato, in quanto giuridicamente superflue.
Si ha notizia dell’intenzione dell’Amministrazione comunale di procedere all’applicazione di sanzioni disciplinari nei confronti dei soggetti coinvolti, tuttavia appare piuttosto inopportuno che la stessa vada ad addentrarsi in una materia così controversa e già oggetto dell’esame di tre diversi organi giurisdizionali.
Già la Cassazione Penale (Sentenza n.958/1999), ben prima dell’avvento prima della L. 30 marzo 2001 n. 130, poi del D.P.R. 15 luglio 2003 n. 254 aveva stabilito, dunque, la distinzione tecnica e ontologica tra cadavere e resto mortale definendo quest’ultimo come un’entità medico-legale che gode di tutela giuridica affievolita rispetto ad un corpo umano morto, prima del completo decorso del periodo legale di sepoltura.
[1] Esistono sentenze della Cassazione che considerano cadavere anche il resto mortale, quando lo stesso ha ancora le sembianze umane. Ad esempio Cass. Pen., 2 febbraio 1960; Cass. Pen., Sez. 3, 27 ottobre 1983, n. 8950.