Studi cimiteriali veneti

Dai cimiteri può saltar fuori di tutto:

Ricostruito il volto di un veneziano di 500 anni fa

Probabilmente di mestiere faceva il “barcarolo”. Era massiccio, muscoloso ma agile. E tutto sommato era in buona salute. A trent’anni, però, si ammalò di peste e non uscì vivo dal Lazzaretto Nuovo.
Qui, mezzo millennio più tardi, è stato disseppellito dagli archeologi: a partire dal cranio, e dallo studio sul suo scheletro hanno ricostruito il suo volto. Mascella volitiva, naso “dantesco”, lineamenti mediterranei, così il “barcarolo” veneziano di 500 anni fa si presenta oggi ai suoi discendenti concittadini.

In mostra i “Tra-passati alla storia”.

Dopo due anni di paziente ricostruzione, il volto del veneziano del XVI secolo fa bella mostra di sé all’interno di una teca nel Tezon Grande dell’isola del Lazzaretto.
Il volto è infatti una delle tappe della mostra allestita al Lazzaretto, che potrebbe essere intitolata “Tra-passati alla storia” e dedicata ai primi esiti del lavoro di ricerca sul camposanto rinvenuto nell’isola: gli scavi stanno portando alla luce decine di corpi appartenuti a vittime delle furiose pestilenze che infestarono nei secoli scorsi la Serenissima.
Una scoperta, quella del cimitero, che sta di fatto riscrivendo la storia stessa dell’isola e della sanità cittadina, dal momento che fino ad oggi si riteneva che al Lazzaretto Nuovo scontassero la quarantena i malati sospetti, mentre fosse il Lazzaretto Vecchio ad ospitare il ricovero dei casi conclamati, coloro cioè che difficilmente guarivano e che lì trovavano sepoltura.

Si seppelliva anche al Lazzaretto Novo. Il ritrovamento di appestati sepolti in quest’isola fa invece ritenere che anche al Lazzaretto Nuovo venissero portati i malati conclamati, almeno nei periodi di pandemia, quando evidentemente gli spazi di una sola struttura di ricovero non erano sufficienti ad accogliere tutti.
Su questo cimitero emerso al Lazzaretto Nuovo si sono così concentrate le recenti campagne di scavo promosse dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto (Nucleo Nausicaa), nell’ambito delle attività dell’Archeoclub d’Italia – sede di Venezia, con il contributo del Progetto Radix “Siti archeologici veneziani da salvare”.
E si tratta di campagne uniche, perché realizzate con le moderne tecniche dell’archeologia forense e dell’antropologia identificativa (GV ne scriveva nei numeri 31/2006 e 31/2007), vale a dire con i metodi e il rigore scientifico mutuati dai reparti investigativi di Polizia e Carabinieri all’opera sulla scena del delitto.
I primi esiti di queste ricerche e poi gli approfondimenti sulla peste, le sue vittime, le conoscenze e le cure dell’epoca sono dunque l’oggetto della mostra che domenica 23 novembre sarà presentata in anteprima al pubblico.

Tutta un’area dedicata alla peste. Una sorta di “preview” che cade in un periodo non casuale, il week end dedicato alle celebrazioni per la Madonna della Salute, festa originata proprio da un voto cittadino per la liberazione dalla pestilenza del 1630-1631.
La mostra, poi, sarà visitabile a partire dalla primavera, quando riprenderanno le consuete visite guidate all’isola.
Intanto è possibile anticiparne i contenuti. Nel Tezon Grande, le cui pareti hanno restituito le scritte (spesso tragiche e commoventi) dei “condannati” alla quarantena, si seguirà il percorso di visita attraverso più aree tematiche.
Accolti dal manichino del medico della peste, i visitatori potranno conoscere le nuove metodologie dell’antropologia utilizzate per tracciare il profilo biologico delle vittime della peste a partire dai loro resti.
Sarà così possibile imparare le differenze tra un cranio maschile ed uno femminile, vedere come si modificano con l’età i denti e i distretti scheletrici, apprezzare i segni che la muscolatura lascia sulla superficie delle ossa.
L’area dedicata alla peste, invece, consentirà di conoscere con maggiore dettaglio una patologia che nei secoli passati rappresentò un vero flagello e che oggi, invece, si cura con banali antibiotici.

Esposto un appestato con bubbone.

L’impostazione della mostra è rigorosa e innovativa, come spiega il curatore Matteo Borrini, archeologo, antropologo forense e coordinatore del Lab.I.Pest (Laboratorio di Archeopatologia per le Indagini sulla Peste del Cira), al quale aderiscono le associazioni Archeoclub d’Italia sede di Venezia, Ekos Club “Isola del Lazzaretto Nuovo”, Gruppo Archeologico Spezzino.
Di grande effetto è anche il modello di “appestato” che si trova in mostra: una realistica scultura sulla quale è stato riprodotto fedelmente, con ricostruzione scientifica, il famigerato “bubbone” pestilenziale. «Della peste ormai non esistono più testimonianze dirette, se non fotografie molto crude provenienti da zone dell’India e dell’Africa»spiega il dott. Borrini: «Per questo abbiamo preferito ispirarci ai modelli anatomici del Settecento, realizzati allora in cera. Ma a differenza di quanto si faceva per le esposizioni museali settecentesche, noi non abbiamo realizzato una scultura ma fatto un calco da persona vivente, al quale poi abbiamo aggiunto il bubbone della peste e le classiche dita in gangrena, tutto con rigore medico, non lasciando spazio all’immaginazione artistica».
L’altro lavoro di ricostruzione è quello cui si accennava all’inizio, cioè il volto del veneziano cinquecentesco. Un lavoro di ricostruzione realizzato da Borrini presso l’Università di Firenze. Analizzando lo scheletro è stato possibile ricavare informazioni sulla muscolatura, sullo stile di vita, sulle eventuali patologie del nostro antenato. «Abbiamo rilevato una muscolatura non simmetrica, sviluppata sì ma non in modo eccessivo, tale che ci fa escludere che si trattasse di un facchino, ma che ci fa ritenere che si trattasse di un barcaiolo, che vogava alla veneta: perciò avrebbe sviluppato l’asimmetria muscolare».

«I suoi amici lo riconoscerebbero». La ricostruzione facciale si basa su una serie di tabelle internazionali di antropologia forense che suggeriscono scientificamente la misura dei muscoli facciali, a partire dalla costituzione del cranio e dello scheletro.
Una tecnica che si solito serve per ricostruire gli identikit e che in questo caso è stata prestata all’archeologia. Muscolo dopo muscolo, strato dopo strato, il volto del veneziano ha preso forma, compresi l’epidermide, il naso, la bocca. «Ne è uscito un volto austero, dal profilo decisamente marcato e individuale. Sono convinto che, se fosse possibile mostrare la ricostruzione ad una delle persone che conobbero quest’uomo in vita, non avrebbero difficoltà a riconoscervi il proprio concittadino».
Poi sono stati aggiunti gli occhi, la barba e i capelli. «Sono contrario ad aggiungere elementi che non possiamo determinare con certezza. Ma in questo caso – osserva Borrini – proprio perché non dovevamo realizzare identikit per scopi giudiziari, abbiamo pensato di ricostruire questi elementi, basandoci sui documenti dell’epoca. Dall’opera sui costumi di Vecellio e da altri testi è emerso che la capigliatura era tenuta a ciocche, senza distinzioni per classi d’età, e la barba era una costante in tutti gli uomini. Solo i ragazzini non la portavano».
Sul volto, in lattice e poliuretano, molto simile alla carne, sono stati così innestati ad uno ad uno i ciuffi di capelli e di barba, di un colore castano, tipico dell’ambiente mediterraneo, così come gli occhi color nocciola.

E come diceva Masaccio… La mostra si completa con l’esposizione di altri reperti, perlopiù ossei, e con una grande teca centrale in cui campeggia l’intero scheletro dell’individuo di cui è stato ricostruito il viso: «La nostra preoccupazione è stata quella di trattare ed esporre questi resti umani con rispetto – aggiunge Borrini – ricordando che erano persone, non reperti. Vorrei che i visitatori immaginassero, sotto la teca, la scritta che Masaccio pose sopra la riproduzione di uno scheletro “Io fui già quel che voi siete, Quel ch’io son voi anco sarete”».

Serena Spinazzi Lucchesi

Tratto da Gente Veneta , no.43 del 2008

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