Servizi pubblici locali: è vero monopolio? Ora si temono (previa invenzione) i micro monopoli …

Se, in relazione all’audizione dell’Antitrust al Senato della Repubblica in relazione al DdL AS 772 (a proposito: dato che il DdL doveva essere discusso in aula a fine maggio-primi di giugno, si trattera’ di vedere se se ne discuta questa settimana, come da calendario, oppure vi siano ulteriori “slittamenti” …) erano stati sollevati dubbi sul fatto che si potesse qualificare in termini di monopolio la presenza di un soggetto economico in un’area limitata, questione che può essere resa altrimenti ponendo la questione delle dimensioni di un’area di riferimento in relazione alle condizioni di redditività dell’attività , recentemente si ha notizia che il direttivo nazionale di un’associazione di categoria (oltretutto di una categoria che negli ultimi 8 anni (circa) ha visto la proliferazione di associazioni, tutte che affermano la propria rappresentatività della medesima categoria, con il risultato della frantumazione della rappresentanza) abbia assunto una posizione determinata, rinunciato al confronto, volto possibilmente a superare il gioco delle reciproche interdizioni, con altri soggetti del settore (il riferimento è al settore degli operatori in materia di attività funebre), “al fine di scongiurare i rischi di illegittimi monopoli e salvaguardare gli interessi ed i diritti della categoria privata” (trascurando che, tra gli interlocutori nei cui confronti si rinuncia al dialogo vi sono altri (plurale) soggetti privati e altrettanto sedicenti rappresentativi, ed uno solo che rappresenta aziende a capitale delle comunità locali. Ora, se (ammesso e non concesso) si possa parlare di “illegittimi monopoli”, il fatto che lo scopo sia quello di scongiurarli, significa, quanto meno, che non si siano ancora formati. Ma l’assunto è ben più pregnante, nel senso che l’impianto logico è evidentemente teso a costruire “riserve” di attività a favore di determinati soggetti, ponendo la condizione per cui il loro capitale sociale sia riferibile a soggetti pubblici, il chè contrasta, in sé, con il concetto stesso di mercato, laddove i diversi operatori economici dovrebbero poter operare sulla base di criteri di concorrenza, a parità di condizioni, lasciando che sia il mercato (cioè i potenziali o effettivi clienti) scelga di avvalersi dell’uno o dell’altro dei, più, soggetti economici, sulla base della qualità delle prestazioni e della convenienza dei prezzi. Oltretutto, non sottovalutando come questi ultimi siano valutabili proprio se sussista una parità di condizioni e non vi siano fattori di alterazione nei meccanismi della loro determinazione, come potrebbe aversi quando uno o più dei soggetti economici operanti, faccia ricorso, per ridurre i costi dei fattori di produzione, a pratiche non regolari (es.: particolari modalità di approccio alla clientela, inosservanza (o, violazione) delle norme tributarie, anomalie nei rapporti con il personale ed altre pratiche che incidono sulla determinazione dei prezzi finali, ecc.), quando non illegittime. Oppure, abbassando il livello, andandosi a confondere i ruoli tra i soggetti operanti in termini di imprenditorialità , con quelli dei ruoli di regolatore (non del mercato, ma delle regole da osservare, da tutti) proprio delle amministrazioni pubbliche. Il nodo sembra stare nel presupposto che – comunque e pregiudizialmente – quando vi siano imprenditori il cui capitale sociale è detenuto, in tutto od in parte, dalla comunità locale, vi siano, per ciò stesso, alterazioni nei sistemi di determinazione dei prezzi, magari con l’assunto, indimostrabile essendo economicamente non possibile, per cui si tratti di attività non remunerative e che le perdite siano coperte non tanto dalle entrate derivanti dall’attività , quanto da quelli che, in ambito comunitario, si definirebbero come “aiuti di Stato”, cioé da trasferimenti dai bilanci delle pubbliche amministrazioni: a parte l’impraticabilità dell’ipotesi (fantasiosa), essa viene a contrastare con il fatto che, quando la comunità locale (il comune) costituisce un’azienda, lo scopo che si prefigge non è solo quello di avvalersi degli strumenti del diritto privato (spesso anche di ridurre i costi a carico del proprio bilancio), ma anche di ricavare entrate per il proprio bilancio, essendo economicamente “suicida” pensare a gestire una data attività economica in perdita, sapendo, dall’inizio, di dover ripianarne le perdite. Oltretutto, in tali situazioni, l’ambito dell’attività è, per sua natura, un ambito locale (può considerarsi “mercato” quello che si esaurisce in ambito cittadino o, se vada bene, in ambito provinciale?), con un numero potenziale di prestazioni ridotto e non tale da consentire margini di utile adeguati: se alcuni soggetti possono, a certe condizioni (e quando sussistano, vi ricorrono senza pensarci due volte), fare conto su attività “in nero”, sul mancato rispetto delle regole (tanto chi le controlla mai …), su tecniche di acquisizione delle commesse che sconfinano (quando non lo siano) con l’ambito penale, ecc., i soggetti imprenditoriali di proprietà pubblica non possono ricorrervi. Non tanto per una loro implicita “virtuosità”, quanto perché la loro struttura e dimensione organizzative sono tali da non consentire il ricorso a quelle tecniche, proprie del piccolo cabotaggio, che consentono una riduzione, più o meno lecita, dei fattori di produzione. Del resto, tale “virtuosità ” dovuta riguarda anche i soggetti, ad intero capitale privato, che presentino struttura e dimensioni organizzative di una certa consistenza, dato che non è la “proprietà “del capitale sociale a produrre questi effetti, quanto la dimensione aziendale. Il chè porta a dover pensare anche ad altro: a) l’ambito territoriale del mercato di riferimento, b) la struttura delle aziende, c) la dotazione di attrezzature e personale, d) l’eventuale possibilità di sinergie in termini di filiera ed economie di scala, ecc. Il punto è che, proseguendo con le logiche localistiche, con le visioni miopi e di breve periodo, con le confusioni e sovrapposizioni dei piani di riferimento, si inibiscono, sempre di più, le possibilità di una crescita della cultura d’impresa in termini moderni, lasciandosi gli spazi per il ricorso a pratiche illecite od irregolari, i cui costi cadono sul “consumatore” finale: i diritti della categoria (privata, secondo l’accezione unilaterale di cui sopra) stanno in piedi se ed in quanto siano osservate le regole da parte di tutti, ma anche quando si producano effettive, e misurabili, riduzioni nei prezzi. Spiace che si perdano occasioni per fare passi in avanti, magari per il condizionamento di singoli che, gia in passato, hanno posto in essere azioni “pro domo sua”, disarticolando il settore (e qui per interessi privati, anzi del tutto individuali, non di categoria). (Sereno SCOLARO)

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Sereno Scolaro

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