Sepolcri privati extra-cimiteriali: fra titoli di proprietà e diritto d’uso della tomba gentilizia

Come comportarsi con i “sepolcri privati fuori dei cimiteri” di cui oggi all’art. 340 comma 2 Regio Decreto n. 1265/1934?
Istituto rarefatto, forse, ma da non sottovalutarsi per i conflitti potenziali che più suscitare, non solo endo-famigliari….
A queste contese infatti l’Amministrazione non può più di tanto rimanere estranea, soprattutto se l’oggetto della lite è il diritto di tumulazione.
Gli eventuali sepolcri gentilizi extra-cimiteriali dei primi anni del ‘900, ad esempio, non essendo ancora vigente il T.U.LL.SS. (e, a maggiore ragione, neppure ancora il Libro III dell’attuale Cod. Civile di qualche anno successivo – 28 ottobre 1941 -), andavano (e, a certe condizioni, andrebbero tutt’oggi, ma su questo aspetto si veda infra) considerati come edifici privati, sia per quanto riguarda l’area, sia per quanto riguarda la struttura muraria elevata sopra di essa.
A partire dal 1/07/1943, l’art. 82, comma 3 R.D. 21/12/1942, n. 1880 aveva, poi, stabilito che la fascia di rispetto richiedesse il vincolo di inedificabilità (auto assunto e debitamente trascritto ex art. 2643 e ss. Cod. Civile, senza dimenticare l’art. 2645 a cura del proprietario/concessionario) mentre qualora fossero venuti meno la dimensione minima della fascia di rispetto o il vincolo d’inedificabilità, sarebbe decaduto persino il diritto d’uso su queste cappelle funerarie autorizzate fuori del perimetro cimiteriale.
Potrebbe, per altro, osservarsi, come queste ultime disposizioni (in parte tuttora sussistenti, salvo che per l’aggiunta dello ulteriore vincolo dell’inalienabilità (art. 105, comma 2 D.P.R. 21/10/1975, n. 803, poi ripreso tout court dal D.P.R. n. 285/1990) e sempre con i medesimi esiti di decadenza in caso di violazione delle stringenti condizioni poste dal Legislatore a tutela dell’esclusivo uso sepolcrale) possano valere per le nuove realizzazioni, mentre le pre-esistenti resterebbero governate come in precedenza, dalla vecchia normativa, con una sorta di sua ultrattività sul diritto attualmente applicabile.
Nel caso, si deve riscontrare – per inciso – come la costruzione, deliberata fuori dal cimitero, anche se – magari – in aderenza ad esso potrebbe avere costituito una violazione del divieto di edificare sulla fascia di rispetto del cimitero, anche se non può eccettuarsi (se solo si disponesse del decreto prefettizio di autorizzazione e, forse, della documentazione relativa alla sua istruttoria sarebbe tutto più facile!) che sia stata considerata la contiguità e, conseguentemente, rideterminata la fascia di rispetto dell’intero complesso (cimitero + cappella esterna), fermo restando che questa avrebbe dovuto essere circondata da fondi, nelle dimensioni dell’art. 110 R. D. 25/7/1892, n. 448, di proprietà e su cui il proprietario/concessionario avrebbe dovuto assumere, e trascrivere, il vincolo d’inedificabilità.

Quanto all’area, però, trovandosi questa al di fuori del cimitero, essa era in tutti i sensi privata, al più gravata dal vincolo proprio delle fasce di rispetto cimiteriali, istituto, per altro, introdotto solo con il T.U.LL.SS. (art. 338 come, a più riprese, riformulato e novellato).
Attenzione, però, siamo dinanzi a due istituti, oggi, diversamente regolati: la cintura sanitaria a ridosso dei cimiteri è stata, per certi versi, modificata e rivista dall’art. 28 L. n. 166/2002 (in sintesi estrema: riduzione sino 50 metri seppur legata al soddisfacimento di diversi parametri piuttosto selettivi ed intrusivi dettati dagli ordinari strumenti urbanistici previo parere dell’AUSL); al contrario per le cappelle private extra cimiteriali di cui al Capo XXI D.P.R. n. 285/1990 permane, pur sempre il raggio minimo dei 200 metri, non comprimibili e gravati dall’ulteriore onere di inedificabilità ed inalienabilità che limita non poco il pieno godimento della proprietà.
Assumendo che questo sia il quadro dogmatico delineato, ed il problema s’incardini davvero in questi pochi elementi di diritto a disposizione, almeno la questione della titolarità dovrebbe, in via teorica, individuarsi nei soggetti che, all’epoca, risultassero proprietari delle aree, qualificando costoro quali concessionari fondatori del sepolcro.
Il punto critico è che non è così facile, oggi, appurare chi fossero davvero i proprietari dell’area al momento dell’innalzamento dei singoli sepolcri, probabilmente essendo anche incerta la data di questo intervento edilizio così sui generis (mentre potrebbe giungersi a individuare anno, mese e giorno della prima tumulazione).
Rispetto a questa, forse, qualche “notizia” potrebbe esser ricavata anche dai registri cimiteriali sulla progressione cronologica delle sepolture che, salvo danneggiamenti agli archivi, dovrebbero essere abbastanza agevolmente reperibili in Comune.

Identificata (solamente quando e se possibile) la persona da considerare, ab origine, quale concessionario/fondatore del sepolcro, si potrebbe pensare che abbiano titolo alla sepoltura gli appartenenti alla di lui famiglia, magari facendo riferimento anche al Regolamento comunale di polizia mortuaria vigente all’atto della fondazione del singolo sepolcro (o, qualora non sia noto il momento genetico dello jus sepulchri, ricorrendo, in via presuntiva, al criterio residuale del periodo della prima tumulazione).
Sic stantibus rebus, si dovrebbe pervenire a questa conclusione: tali sepolcri non possono che essere a tempo indeterminato (o, perpetui), siccome la piena proprietà (inizialmente sussistente) non ha, ovviamente… scadenza.
Una volta definito il concessionario fondatore del sepolcro, i suoi eredi (essendo stata l’area, in origine, una proprietà privata occorre operare rinvio agli istituti successori e non alla appartenenza alla famiglia secondo lex sepulchri oggi cristallizzata nell’art. 93 comma 1 I Periodo D.P.R. n. 285/1990), che provino documentalmente tale rapporto dante causa/avente causa, potrebbero chiedere di eseguire ristrutturazioni o riattamenti (anche ai sensi dell’art. 106 D.P.R. n. 285/1990 da implementarsi attraverso il paragrafo 16 della Circ. Min. 24 giugno 1993 n. 24) ma – ormai – secondo le norme (Regolamento comunale e piano regolatore cimiteriale) statuite per i sepolcri eretti su aree (comunali) nel cimitero, cioè al pari di ogni altra concessione sorta in applicazione degli artt. 90 e ss. D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.

Per altro, qui vanno formulate due specifiche riflessioni:

a) lo Jus Sepulchri è, e rimane sempre, “riservato” alle persone facenti parte della famiglia del concessionario fondatore del sepolcro, indipendentemente dalla qualità di eredi o meno;
b) sugli eredi, anche se non appartenenti alla famiglia, gravano gli oneri manutentivi di cui all’art. 63 D.P.R. n.285/1990, cui non possono sottrarsi (avrebbero potuto liberarsene, in precedenza, cioè al momento in cui siano stati chiamati all’eredità, rinunciando a quest’ultima e la Legge prevede la nullità della rinuncia parziale, a termine o condizionata ex art. 520 Cod. Civile).

Rispetto all’ultima postilla (il comune ha, comunque, acconsentito alle successive tumulazioni), si deve rammentare – sempre – come ogni tumulazione in un sepolcro privato nei cimiteri (sono tali tutte le collocazioni [uti singuli] nei cimiteri diverse dall’inumazione nei campi di terra di cui all’art. 58 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285) dovrebbe essere oggetto di specifica autorizzazione comunale, che va (melius) andrebbe rilasciata una volta controllato se il defunto avesse davvero diritto ad esservi accolto, in quanto appartenente alla famiglia del concessionario.
A maggior ragione, questa attestazione si rende necessaria quando si tratti di sepolcri “privati” (nel senso anche civilistico del termine), in relazione all’art. 102 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
In ogni caso, la preliminare dimostrazione dello jus sepulchri primario, che è presupposto perché sia accordata l’autorizzazione alla tumulazione in un dato sepolcro, ha portata generale, attenendo alla vigilanza propria del comune sui cimiteri e sui sepolcri in essi insistenti o, a fortiori, pure extra moenia.
È ben vero che non mancano contesti ambientali di cattiva gestione cimiteriale in cui i Comuni abdichino dalle proprie funzioni di garanzia e supervisione sull’attività di polizia mortuaria, da questa colpevole omissione discende una ricaduta negativa (stigmatizzata dal Consiglio di Stato, Sez. V^, sent. n. 4081 del 25 giugno 2010) la quale, poi, inibisce loro la possibilità di esercitare altri propri poteri di riesame, (ad esempio: atti di ritiro) negando, così, la legittimità ad adottare, dove ricorrano gravi violazioni unilaterali alle obbligazioni sinallagmatiche contratte dal privato cittadino con la stipula dell’atto concessorio nei confronti della municipalità, provvedimenti di decadenza sanzionatoria.

Written by:

Carlo Ballotta

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