Le tecniche di composizione salma influiscono sulla sua scheletrizzazione certa?

Il regolamento statale in vigore concede solo alcuni accenni all’imbalsamazione (art. 46 d.p.r. n.285/90), senza indicare modalità e tempi per una corretta procedura d’attuazione.
Il legislatore si è invece concentrato principalmente sull’unico trattamento conservativo, su larga scala anche se di natura palliativa (o presunta tale!), specificamente contemplato dalle norme sanitarie di polizia mortuaria: ossia la siringazione del cadavere con 500 c.c. di formalina.
Questa potentissima sostanza periossidante, scoperta alla fine del XIX secolo, è in grado di arrestare, per un lungo periodo, i processi degenerativi dei tessuti.
Il suo abbondante utilizzo, specie tempo addietro, è stato al centro di un intenso e controverso dibattito negli ultimi anni.
Alcune voci, piuttosto critiche, la ritengono responsabile di numerosi casi di mancata mineralizzazione delle salme. Gli esperti di cosmesi funeraria, d’altra parte le imputano un eccessivo irrigidimento della cute che snaturerebbe i tratti somatici.
Le associazioni sindacali, invece, alla luce della nuova disciplina in merito alla sicurezza sul posto di lavoro, lamentano il rischio continuo per i lavoratori, siano essi necrofori o addetti alle camere ardenti, che sono a diretto contatto con un composto tossico ad alto potere cancerogeno (in certe situazioni).

L’iniezione viene praticata, con una sonda monouso, nella cavità addominale.
La siringa è prevaricata con una certa pressione, così da poter vincere la resistenza del cadavere, dovuta alla rigidità mortale
Viscere e parti molli, in effetti, sono le componenti dell’organismo più soggette ai fenomeni putrefattivi. Non a caso, il primo segno evidente e certo della decomposizione è la comparsa, all’altezza del fegato, di un’estesa chiazza dalla tonalità verdastra.
Questa disposizione normativa mira massimamente a preservare l’igiene degli ambienti in cui i cadaveri transitano o sostano, mentre si rivela insufficiente per garantire una decorosa presentazione estetica della salma, soprattutto durante l’intenso momento della veglia funebre.
Se il decesso è avvenuto in ambiente domestico difficilmente vi sarà la possibilità di riporre, prima della definitiva chiusura del feretro, le spoglie nelle moderne celle frigorifere.

Una simile soluzione sarebbe in grado di stabilizzare, grazie alla bassa temperatura, le trasformazioni postmortali che imprimono alla decomposizione un andamento convulso.
Sovvertire le prospettive ogni tanto può essere utile, per valutare i problemi da una diversa angolazione, così da avere un spettro di possibili rimedi il più ampio possibile.
Ebbene il vero dramma per il modello a rotazione e poi ad accumulo del cimitero italiano è che i corpi non si scheletrizzano in modi e soprattutto tempi certi, per una ragionevole pianificazione degli spazi sepolcrali, anche da qui ad un futuro prossimo, siccome essi – è notorio – non sono dilatabili all’infinito.
Certo: la diretta cremazione (specie dei resti mortali) sta sollevando i colleghi gestori degli impianti cimiteriali da situazioni di pesante sofferenza, per mancanza di nuovi tumuli (loculi singoli, cripte edicole tombali…), ma la difficoltà persiste e la percentuale degli indecomposti dopo il periodo legale di sepoltura continua ad esser pericolosamente alta.
Anche le più rassicuranti esumazioni ordinarie (in cui l’esito dovrebbe esser pressoché scontato) si ravvisano pesanti anomalie.

Non è questa la sede per una trattazione medico-legale di una questione troppo complessa per esser davvero affrontata in poche righe, ma s’impongono alcune riflessioni d’insieme.

Da una personale esperienza, se si vuole del tutto empirica si ritiene non fuori luogo questa piccola provocazione: anche nell’inumazione i morti faticano a decomporsi perché preparati e “vestiti” troppo bene.
Non ci si riferisce tanto alla qualità del vestiario funebre (fibre non sempre naturali e facilmente biodegradabili) o alla semplice cosmesi, quanto proprio alle tecniche di tolettatura mortuaria e preparazione della salma.

In primis occorrerebbe chiarezza sulla puntura antiputrefattiva, ad avviso di chi Vi scrive proprio da evitare, abolire ed abrogare perché le zone dell’addome in cui essa è praticata tendono spontaneamente ed in modo impressionante all’auto-conservazione.
Non è raro all’apertura della fossa rinvenire cadaveri ancora parzialmente incorrotti proprio in quelle regioni del corpo.
Come dimostrato già in altra letteratura settoriale, sempre reperibile su funerali.org, la verifica sullo stato di mineralizzazione in una salma parte proprio dal bacino, se le ossa sono ben visibili e sciolte le una dalle altre si procede con una relativa facilità e sicurezza alla raccolta delle stesse.

Spesso, però, spesso accade l’esatto contrario (= salma non scheletrizzata), perché proprio queste zone sono state “trattate” con sistemi di contenimento prettamente “meccanici” (assorbenti, pannoloni) tale da renderle impermeabili, in funzione del tempo necessario allo svolgimento in tutta tranquillità della veglia funebre, quando il de cuius è esposto a cassa aperta.
Negli scorsi decenni, quando erano i famigliari ad occuparsi gelosamente della tolettatura mortuaria, si ricorreva ad alcuni rudimentali espedienti come, ad esempio, avvolgere strettamente l’addome ed il basso ventre con fasce per contenere eventuali perdite d’umori.
Spesso il defunto veniva ricoperto con vari strati d’indumenti intimi.
Una prova di questa consuetudine è evidente durante le estumulazioni, dove assai sovente si rinvengono resti inconsunti.
In diverse occasioni gli affossatori, all’apertura delle casse metalliche, scoprono salme abbigliate con diversi capi di biancheria, accuratamente sovrapposti.

Concentriamoci ancora sulle esumazioni ordinarie.
Esse vengono ormai svolte ben oltre il turno decennale di rotazione in campo di terra, un po’ per razionalizzare le operazioni massive, un po’ – invero – perché nelle quadre di interro lo spazio abbonda, difatti i costumi funebri degli Italiani stanno volgendo rapidamente verso altre pratiche, cremazione in primis, lasciando così “sguarnite” aree e superfici adibite alla realizzazione di quelle singole fosse, previste come fabbisogno minimo e necessario per la ciclica attività cimiteriale.
Altro punto dolente, spesso foriero di dissidi e dissapori tra la direzione degli obitori/depositi d’osservazione e quella dei cimiteri è la presenza in alcuni feretri inumati non tanto della cassa metallica quanto del body bag in cui la salma è stata trasportata ipoteticamente immaginiamo un recupero sulla scena di un sinistro stradale o altro accidente cruento in luogo pubblico.

Nei casi contemplati dal D.P.R. n. 285/1990 come frangenti così estremi (decapitazione e maciullamento, avanzato stato di decomposizione) da render superfluo il periodo di osservazione e, di conseguenza impossibile l’esposizione estetica della salma a cassa aperta (le ragioni sono facilmente intuibili) i corpi (o quanto ne residui), spesso in osservazione presso i locali deputati ai riscontri tanatologici (istituto di medicina legale, ad es.) vengono sommariamente ricomposti in un sacco da recupero salme (per sua natura impermeabile) e poi chiusi nel feretro debitamente confezionato, in rapporto a trasporto e tipologia di sepoltura prescelta.
Questi cadaveri avvolti strettamente in un involucro flessibile, ma ermetico dove umori organici e gas putrefattivi resteranno imprigionati per sempre, sono soggetti facilmente a processi di tipo trasformativo conservativo, ovvero destinati a non decomporsi mai, anche se a contatto con la nuda terra.

Solita criticità dell’art. 75 comma 2 D.P.R. n. 285/1990, quando il legislatore prescrive nell’inumazione di neutralizzare, prima dell’effettivo interro, ogni (detto molto genericamente) contenitore diverso dalla sola cassa lignea.
Anni fa si sarebbe trattato di aprire squarci e tagli lungo almeno il coperchio di lamiera del feretro.
Già in piena emergenza CoVid-19 il Dicastero della Salute, con apposita risoluzione chiarì il proprio pensiero sull’inopportunità di procedere alla manomissione del feretro, quanto meno per determinate tipologie di defunti positivi a morbo infettivo-diffusivo.
Qui, invece, il problema si complicherebbe ulteriormente, quindi si procrastina lo scabroso intervento a quando per forza si dovrà dischiudere la tomba, dopo il periodo legale di sepoltura.
Nella tumulazione l’esito del disseppellimento è quasi sicuramente un resto mortale, per la nota inibizione dell’altrimenti naturale degradarsi della materia organica, dovuta al micro-ambiente assolutamente sfavorevole che si crea entro feretro e sepolcro, perché appunto entrambi stagni.
Stessa difficoltà si ravvisa anche in cadaveri inumati da dieci anni ed oltre, quando, purtroppo per cause di forza maggiore, lo spirito della Legge (ossia immettere nei campi di terra solo sostanze e materiali facilmente decomponibili) non possa esser debitamente osservato.

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Carlo Ballotta

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