Riportiamo per esteso l’articolo a firma di Liliana Tangorra, pubblicato in data 30/11/2020 su www.bitontolive.it/news/cultura, dal titolo “La figura angelica nei cimiteri pugliesi”
Opere pregevoli, ispirate all’angelo di Monteverde e a quello della morte di Wetmore Story
“Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” cantava Ugo Foscolo nel carme Dei Sepolcri. Partendo da questa citazione, si può avvalorare la consapevolezza che l’arte funeraria narra le forme e i modi in cui, la volontà dell’uomo di lasciare traccia di sé, si fanno testimonianza concreta e tangibile.L’iconografia funebre non può prescindere dal contesto all’interno del quale si è sviluppata nell’Ottocento. La nuova immagine della morte, della sopravvivenza e dell’aldilà, che si afferma nella mentalità collettiva del XIX secolo, non sarebbe completa se non dessimo conto a una forma di evocazione a noi oggi molto nota: la statua, il monumento che rese visibile all’occhio dei vivi tutta una “folla di morti”, come li definisce Michel Vovelle, che si voleva sottrarre all’oblio. È a questo concetto quasi propagandistico che si rivolge questo contributo, che non prescinde da vedere nella magnificenza funeraria la manifestazione di una presenza che, come accadeva anche in epoche più antiche, è complementare alla celebrazione del potere.
LA FIGURA ANGELICA
Una delle figure più identificative della miriade di messaggi legati al “ricordo” è senza dubbio quella angelica.
Riassumere in un articolo la presenza aligera, la cui discendenza storica nell’arte funebre è ascrivibile addirittura alle civiltà pre cristiane in un’idea polifonica ed extra culturale del concetto ultraterreno, sarebbe impossibile, ma il circoscrivere ad alcuni esempi pugliesi questa riflessione ci restituisce una visione florida della produzione locale in riferimento all’oggetto di questa modesta riflessione.IL GENIO DELLA MORTE
L’angelo “cimiteriale” ottocentesco fu sviluppato da Antonio Canova, che definì il Genio della morte neoclassico, caratterizzato dalla fiaccola o dalla tromba capovolte. Inizialmente di sembianze maschili, dalla fine del XIX secolo diventò androgino fino ad assumere sembianze femminili. Il genio/angelo custode della tomba del Canova, divenne all’occorrenza genio del commercio, della scienza, della pittura e così via, accompagnandosi ad ancore, balle di merce, strumenti scientifici, palette d’artisti.
Ne è un esempio la tomba realizzata da Giuseppe Dini per la marchesa Clelia Taliacarne Melchioni nel cimitero di Staglieno a Genova (1873). Questa mescolanza tra sensibilità cristiana e nuova pietà secolare ha avuto precedenti “nobili” e ha fornito la giustificazione per adottare questo “stile” nei cimiteri.
UNA NUOVA IDEA DI MORTE E DI DONNA
A modificare la visione efebica dell’angelo contribuì, a cavallo tra Ottocento e Novecento, una nuova idea legata alla morte e alla donna. Come evidenzia il professor Fabio Mangone, alla fine del XIX secolo l’immagine della donna si trasforma in quella di femme fatale. Se per tutta la metà dell’Ottocento, nei romanzi d’appendice o in quelli colti, la donna era di solito vista come vittima degli avvenimenti, negli ultimi anni dello stesso secolo la situazione si ribalta e la donna si tramuta in una belle femme sans merçi, restituendo così all’arte una nuova e affascinante iconografia, spesso identificabile con la Maddalena e il suo ruolo di penitente e dolente.A questo punto non si deve trascurare l’importanza di altri e alti esempi di angeli “funerari” che indubbiamente hanno influenzato il diffondersi di particolari iconografie: l’angelo di Monteverde della Tomba Oneto del cimitero di Staglieno a Genova e l’angelo della morte di William Wetmore Story nell’Acattolico di Roma. A questi eminenti esempi dobbiamo riferirci per analizzare parte della produzione scultorea funebre pugliese. Riporto alcuni casi in questo contributo.
L’ANGELO SENSUALE DI MONTEVERDE
Il primo angelo “simbolista” è quello ideato nel 1882 dallo scultore alessandrino Giulio Monteverde per la tomba del banchiere Francesco Oneto a Genova: l’angelo di Monteverde o della Resurrezione. Questa figura incrocia le braccia per nascondere i seni, regge con la mano destra la tromba del Giudizio universale e guarda melanconica lo spettatore. Con la sua sensualità, l’angelo di Monteverde è diventato uno dei simboli più rappresentati nelle tombe funerarie tra la fine dell’Ottocento e il Novecento. A Bari ne sono un esempio la Cappella Caforio caratterizzata da una figura celestiale con le mani incrociate sul seno, lo sguardo addolorato, le vesti avvinghiate al corpo e le ali a riposo: una rivisitazione, per l’appunto, del più aulico angelo Oneto.
Il fine bassorilievo della Tomba Renaudot, sempre nel cimitero barese, riprende questa iconografia, solo che l’angelo abbandona le mani congiunte sul seno, portando sul cuore un crocifisso e nella mano destra un mazzo di caduchi fiori. Una rivisitazione sempre déco dell’angelo della resurrezione si trova sulla Tomba Mincuzzi realizzata a Bari da Aldo Forcignanò e Gaetano Paliotto, coadiuvati nelle decorazioni da Giovanni Laricchia. In quest’opera, figure diafane riprendono in maniera stilizzata la posa di quella monteverdiana.
L’ANGELO PATETICO DI WETMORE STORY
Il cimitero di Barletta con la Tomba di Russo Salvatore esprime quella tendenza imitativa di alto livello alla quale le famiglie benestanti rispondevano. Un angelo dolente è poggiato su una piramide mozza decorata con girali. L’angelo, dalle forme femminee, dischiude gli occhi e lascia cadere il braccio sinistro, sul quale poggia il volto, in uno slancio patetico. Le ali a riposo sono intervallate da una cascata di morbidi capelli. Guardando questo essere alato, non si può che continuare a ribadire la paternità di questo tipo di figura aligera patetica a Wetmore Story nell’Acattolico di Roma. Il riferimento a Wetmore Story è preso a prototipo dal misconosciuto artista dell’angelo del dolore della Famiglia Nuggie nell’affascinante camposanto di Taranto, come nel monumento Bevilacqua. Un angelo dal volto dolorante, che quasi poggia le sue membra su un inserto di fiori, rose per di più rese in maniera bozzettistica, definisce la Tomba Bevilacqua alle porte del San Brunone di Taranto. Con la mano destra raccoglie un fiore da questo “albero della vita spezzato”. In effetti la scultura è posta sulla tomba di una bellissima fanciulla appena diciottenne, alla quale è dedicata la frase “Perit juvenis quem deus delicit. Requiem”
Questi esempi rappresentano un piccolo approccio alla produzione pugliese, ispirata ad esempi illustri. Lo studio delle citate sculture sottolinea l’impegno di scalpellini e artisti pugliesi nel definire un passaggio storico identificabile nella risoluzione di un messaggio legato ad un ricordo e ad un’eredità a noi consegnata. Un messaggio che, negli studi legati all’arte cimiteriale, si tenta di onorare.