Gli artt. da 82 a 89 del D.P.R. 10/9/1990, n. 285 “Regolamento Nazionale di polizia mortuaria” disciplinano le esumazioni ed estumulazioni, nonché le competenze dell’USL al riguardo.
In precedenza, i riferimenti normativi sarebbero stati i seguenti: artt. da 83 a 90 D.P.R. 21/10/1975, n. 803 “Regolamento di polizia mortuaria” (in S.O. n. 1 alla G.U. n. 22 del 26/1/1976); artt. da 61 a 67 del R.D. 21/12/1942, n. 1880 “Approvazione del regolamento di polizia mortuaria” (in G.U. n. 139 del 16/6/1943).
In quest’ultima fonte, in ordine di tempo, il Decreto del 1990 si depotenziava il ruolo del classico “custode”, a favore di altri organi del Comune, e per la prima volta dopo la L.n.833/1978 “Legge sul servizio sanitario nazionale) si identificava come “referente sanitario” il misterioso profilo del “coordinatore sanitario”, abrogato da lì a pochi anni e da intendersi – ora – genericamente quale “responsabile” del servizio igienico-sanitario deputato al controllo sulle attività funerarie, se ancora sussistente, dopo la c.d. Legge “La Loggia” di riordino sulle potestà di porre diritto ora esclusive, ora concorrenti tra Stato e Regioni, il sistema di pesi e contrappesi si è fortemente disarticolato.
La stagione convulsa delle Leggi Regionali con conseguenti regolamenti attuativi, o dei semplici provvedimenti amministrativi sospensivi nei primi anni del 2000 tese, invece, a demedicalizzare la polizia mortuaria, per motivi organizzativi soprattutto, ma anche di effettivo risparmio.
Le ultimissime, confuse novelle legislative, assunte come sempre su base regionale, invece, paiono conferire nuovi compiti ai soggetti istituzionali di diritto sanitario (A.USL o comunque denominata) i quali come interfaccia tecnico-strumentale si relazionano con l’amministrazione comunale titolare, pur sempre, della potestà di regolazione dell’attività di polizia mortuaria e degli stessi servizi necroscopici e cimiteriali.
Le figure estranee al cimitero ed ai suoi storici habitués, come appunto i novizi (qual anch’io fui, in tempi remoti), possono vedere le cose con una prospettiva più ampia, notando problemi che gli addetti ai lavori non avvertono, a causa della quotidiana routine, vera lente deformante (fenomeni di burnout?) attraverso cui il lavoro in cimitero è spesso visto e vissuto, sotto i bagliori di una luce sinistra.
Questo progressivo impoverimento di motivazioni nel personale necroforo, deriva in buona parte dalle caratteristiche del lavoro (ripetitivo, a basso contenuto tecnico, sostanzialmente di attesa), ma per una certa parte pure dalla scarsa considerazione in cui è tenuto. Sul lavoro nei cimiteri pesano pregiudizi antichi, anche nell’ambiente dei c.d. camici bianchi.
Per conoscere e, quindi, capire il cimitero nelle sue spesso incomprensibili logiche e contraddizioni, che fanno pur sempre “sistema” bisogna imparare a frequentarlo, parlando… con la gente giusta.
Non si governa un camposanto, specie se ha estensioni importanti, solo dall’ufficio della dirigenza.
Quando ebbi la malsana idea di vagare per le moderne necropoli, come un perfetto sconosciuto e in incognito, mi resi subito conto di come il semplice fatto di andarci spesso mettesse allo scoperto consuetudini poco soddisfacenti, come ad esempio la pratica della cosiddetta “richiesta di riduzione salma”, fondata su di un equivoco grossolano: un buon medico legale, ancor fresco di studi, saprebbe sicuramente smontare queste fantasiose tesi, con parole pure più icastiche ed immediate, nonché incisive.
Quando iniziai questo mestiere, all’alba del nuovo millennio, in molti Comuni la cittadinanza, spesso le fasce più anziane della popolazione, era ancora convinta che allo scadere dei fatidici 30 anni (e perchè, poi 30?) di tumulazione la riduzione delle salme desse esito garantito, e tutti si affrettano pertanto a richiederla, magari per liberare prezioso spazio in vista di un’imminente, nuova tumulazione.
Poi, però, quando si è davanti alla brutta sorpresa ci si trova del tutto impreparati ad affrontare l’imprevisto della salma non mineralizzata.
In occasione di una ricerca svolta sui regolamenti comunali di polizia mortuaria in una Provincia del Nord vigenti in quegli anni, rinvenni la probabile origine di questa errata convinzione.
A titolo esemplificativo riporto uno stralcio dell’art. 50 del regolamento del Comune di XYZ approvato, a suo tempo, con deliberazione di Consiglio Comunale n. nnn del gg/mm/2000:
“(…) Nel caso di salme tumulate in concessione perpetua, le estumulazioni non possono farsi, per la riduzione, prima che siano trascorsi 30 anni dalla sepoltura”.
Nei regolamenti di altri comuni della Provincia di cui sopra ci sono formule analoghe (non sempre con la condizione della concessione perpetua), che si tramandano da chissà quanto tempo e comportano la possibilità di fraintendimenti.
Se dopo i 30 anni di sepoltura le estumulazioni per riduzione “possono farsi”, è facile equivocare e confondere la possibilità di presentare la domanda con la garanzia di raggiungere l’obiettivo prefissato.
Sovente si maturavano esperienze frustranti, si mobilitava sino all’ultimo necroforo disponibile e poi nulla: il resto mortale, come tale, appunto, non sarebbe stato riducibile in cassetta ossario. Era indecomposto.
Bare di zinco inutilmente squarciate (dato l’esito pressoché sicuro dell’ispezione sulla salma), e casse linee divelte, con conseguente aggravio di costi per i dolenti, (acquisto di cassone in metallo, da avvolgimento) senza aver ottenuto, poi, risultato alcuno, se non per i cittadino la solita e garantita “dose” di malessere quotidiano, assicurato quando ci si deve rapportare con la fredda e laconica realtà cimiteriale, peggiore, se si vuole, della sua relativa, fredda burocrazia.
Dopo continui e preoccupanti report sull’andamento delle estumulazioni, qualcuno “in alto” alla fine si stancò!
Le famiglie dovevano essere costrette a riflettere maggiormente sulle ragioni per le quali richiedevano operazioni cimiteriali, giustamente a titolo oneroso.
Già la ri-modulazione del piano tariffario riuscì ad ottenere un buon effetto deterrente.
Solo se vi fosse stata effettiva necessità di liberare un posto salma si sarebbe potuto presentare una specifica istanza di estumulazione del feretro per successiva inumazione obbligatoria, a questo punto, ex art. 86 comma 2 D.P.R. n. 285/1990.
Patti chiari: l’ufficio della polizia mortuaria, dopo la novella del proprio Regolamento Municipale, non avrebbe più accettato ritumulazioni nello stesso loculo, se non sotto forma di ossa e successivamente di ceneri.
Questa severità diede i suoi frutti: la gente cominciò a capire che la scadenza dei 30 anni non era una certezza di riducibilità e si sarebbero dovuti sostenere diversi e successivi costi, magari pure improduttivi.
Un poco per volta si riuscì a modificare una mentalità sbagliata.
Poi, come ricordato prima, il quadro normativo si sbloccò favorevolmente, in una direzione volta a favorire ed incentivare la pratica cremazionista almeno per gli esiti da fenomeno cadaverico di tipo trasformativo conservativo.
Nessuno sollevò obiezioni ed i gestori dei cimiteri già saturi ed in sofferenza di posti salma, tirarono un gran sospiro di sollevo.
Rapidamente, assieme ai medici, allora applicati al servizio di polizia cimiteriale, ci accorgemmo che, quando in una mattinata erano programmate delle “riduzioni salme” in edicole o colombari, avremmo finito con il partecipare ad una farsa, un film dalle scene già viste, trite e viete.
Con l’incombente scadenza di molte concessioni si sarebbe rischiata la paralisi, soprattutto per il molto probabile immobilizzo per altro tempo ancora (rinnovo ovviamente scontato ed inevitabile della concessione) dello spazio sepolcrale soggetto a campagna di estumulazione.
I muratori aprivano i loculi, abbattendo la tamponatura in mattoni, gli operai estraevano feretri ben conservati, li sfondavano e portavano alla luce salme completamente essiccate.
A quel punto, i familiari si trovavano di fronte ad una situazione che nessuno aveva loro prospettato, ed erano impreparati a risolvere: i più disorientati erano gli anziani.
Le opzioni (ante D.P.R. n. 254/2003) erano solo due: l’inumazione (che però non è popolare dalle nostre parti) oppure la ri-tumulazione nello stesso loculo previo avvolgimento in cassone di zinco.
Veniva costantemente privilegiata la seconda scelta.
Le imprese di pompe funebri, pur consapevoli di questi aspetti, evitavano di contraddire i propri clienti, e gli impiegati degli uffici cimiteriali non ritenevano di loro competenza interferire nel rapporto tra i familiari e le ditte.
Così si creò la c.d. asimmetria informativa tra chi (l’azienda funebre) conosce davvero tutte le possibile fattispecie più settoriali e tecniche del problema “inconsunto cimiteriale” e quanti, invece, felicemente avulsi dallo scibile mortuario, gradirebbero esser guidati con giudizio ed educati alla decisione consapevole, in un momento comunque molto difficile e delicato.
Le ditte di pompe funebri più spericolate nelle loro motivazioni se la cavano – bene o male – in… corner, tirando in ballo sempre il caso, l’ineluttabile, la fatalità imponderabile.
Non ho mai visto un familiare che si rendesse conto di essere stato mal consigliato, o di aver agito, specie se in un momento di bisogno, sulla base di falsi ed erronei presupposti.
Adesso il vento pare sia cambiato e vi è molta più consapevolezza sugli effetti perversi della tumulazione stagna.
Essa favorisce solo la conservazione della spoglia mortale, non la sua completa dissoluzione, sino alla raccolta delle sole ossa.
Anzi, più si segue alla lettera la regola (impermeabilità del feretro ed ermeticità del tumulo) maggiori saranno i rischi di verifiche sulla scheletrizzazione dei corpi con dato tendenziale altamente negativo: la percentuale dei morti indecomposti è, infatti, ancor oggi altissima.
Tutto ciò, naturalmente, prima del D.P.R. 15 luglio 2003 n. 254 che, di fatto, legittimò la diretta cremazione di resto mortale proveniente da estumulazione.
Da quel momento il problema non si è più posto, almeno nelle mie zone.