La Chiesa e la natura del cimitero

Si riporta, di seguito, la relazione I MARTIRI NELLA PROSPETTIVA DELLA CARITÀ CRISTIANA: STORIA, MONUMENTI, CULTO, MANIFESTAZIONI ICONOGRAFICHE svolta dal PROF. FABRIZIO BISCONTI, PRESIDENTE DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA DEI VIRTUOSI AL PANTEON, in occasione della XII Seduta Pubblica delle Accademie Pontificie dedicata al tema “Testimoni del suo Amore”, alla presenza del Papa Benedetto XVI. Si tratta, tra l’altro, delle origini del cimitero per i cristiani e la relazione è particolarmente interessante perché consente di valutare il posizionamento della Chiesa in materia. Maggiori informazioni possono essere tratte direttamente dal sito dell’agenzia Fides, cliccando qui

Nel cuore dell’Esortazione Apostolica post-sinodale “Sacramentum Caritatis”, proprio laddove il Sommo Pontefice Benedetto XVI entra nel merito del suggestivo nodo, che lega intimamente l’Eucaristia e la testimonianza, intesa come offerta della vita, si apre una pista suggestiva che, dall’esortazione paolina di Rm 12,1 “Offrite i vostri corpi”, ci accompagna speditamente verso le gesta e le storie dei martiri della prima ora e, segnatamente, verso gli episodi, che condussero alla prova estrema Policarpo di Smirne ed Ignazio di Antiochia.
La storia dei due campioni della fede si propone come testimonianza paradigmatica di chi -secondo l’Esortazione del Santo Padre – “entra nella piena comunione con la Pasqua di Gesù Cristo e così diviene egli stesso con Lui Eucaristia”. Il vescovo di Antiochia, scrivendo alla comunità cristiana di Roma, esorta i destinatari a non intercedere nei suoi confronti per evitargli la damnatio ad bestias e dunque a non provocare ostacolo alcuno al suo desiderio di unirsi a Cristo, di incitarlo proprio nella sua passione, istituendo una sorta di carta di fondazione della mistica del martirio. Un filo rosso unisce il vescovo di Antiochia all’anziano padre Policarpo, martire a Smirne, negli anni centrali del II secolo. Il redattore della lettera (alla comunità di Filomelio, una città della Frigia posta tra Licaonia e Antiochia di Pisidia) scende nei particolari e nella dinamica di un martirio, che è vera ed esemplare imitazione di Cristo, talché la sua storia sembra traguardare e drammatizzare l’evento estremo del Calvario: “Non lo inchiodarono, ma lo legarono – recita il passaggio più teso della lettera – con le mani dietro la schiena e, legato come un capro scelto da un gregge per il sacrificio, disse: Lasciatemi così. Chi mi dà la forza di sopportare il fuoco mi concederà anche, senza l’espediente dei chiodi, di rimanere fermo sulla pira”.
Qualche anno più tardi, tra il 163 e il 167, si consumò a Roma uno dei maxi processi più serrati della storia del Cristianesimo. Il filosofo Giustino, maestro laico cristiano, fu denunciato, assieme ad altri fratelli della comunità nascente di Roma, per l’invidia del filosofo cinico Crescente. Il resoconto, di autore ignoto, del processo di fronte a Rustico, prefetto di Roma, rappresenta uno dei primi Atti giudiziari, che rispetta perfettamente la dinamica delle fonti, da cui emerge una personalità potente, alla ricerca della verità, che accompagna il maestro verso la pace incontrata nella fede cristiana, ma anche, ed ancora una volta, la messa in opera dell’imitatio Christi, quando i processati, “rendendo gloria a Dio, vennero al solito luogo delle esecuzioni – secondo quanto riferiscono gli Atti nell’Epilogo – e portarono a compimento la loro testimonianza con la professione di fede nel Salvatore, al quale è gloria e potenza, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo”.
Il martirio, come testimonianza, come sacrificio, come eucaristia, come segno simbolico, eppure concreto, dell’offerta del corpo, come consegna incondizionata della propria vita si diffonde rapidamente e capillarmente per tutto l’orbis christianus antiquus, fino all’orizzonte africano, dove precocemente con fervore i fratelli corrono sicuramente verso la prova del martirio, che li accomuna al destino e al sacrifico del Cristo, a cominciare dall’eccidio di Cartagine, che si consumò nell’anfiteatro il 7 marzo del 203 e che vide protagoniste Perpetua, Felicita e i compagni. La passio, che “fotografa” il tragico evento, si svolge secondo il genere letterario misto che intreccia la rievocazione storica alle visioni apocalittiche, ma mostra – come sempre – la forza e le idee riconducibili al concetto del sacrificio-testimonianza, come viene concepito, in quegli anni, dalla teologia del martirio tertullianeo. “Brillò finalmente il giorno della loro vittoria – ricorda enfaticamente la passio -, camminarono dalla prigione all’anfiteatro come se andassero al cielo. Lieti e composti nel volto; se, per caso trepidavano, era di gioia, non di paura. Perpetua incedeva con passo tranquillo, come una matrona di Cristo, una prediletta di Dio; la forza del suo sguardo costringeva tutti ad abbassare gli occhi”. Il vigore di questo commovente passaggio narrativo – tanto potente, che ha fatto pensare ad una stesura diretta di Tertulliano ormai montanista – riemerge nell’epilogo mesto, raccolto, ancorato solidamente alla passio Christi, quando si conclude, ricordando che “le loro salme furono raccolte di nascosto dai cristiani e conservate per la gloria di Cristo e la lode dei martiri”.
La terra d’Africa ha donato sicuramente le figure più potenti alla storia del martirio cristiano, anche quando allunghiamo lo sguardo verso le persecuzioni storiche, per giungere a quella efferata di Valeriano, in occasione della quale – come è noto – fu trucidato il vertice della Chiesa romana, con l’uccisione del pontefice Sisto II, i suoi diaconi e il più stretto entourage della gerarchia ecclesiastica dell’Urbe. Erano i primi giorni dell’agosto del 258. Di lì a qualche giorno e, segnatamente, il 14 settembre dello stesso anno, trovò la morte il vescovo di Cartagine Cipriano. La dinamica del suo martirio segue da vicino la passio Christi. “Egli stesso fu condotto al campo di Sesto – scrive il redattore degli Atti – dove si spogliò del suo mantello e, genuflesso in terra, si prostrò in preghiera davanti al Signore. Poi si tolse la dalmatica e la diede ai diaconi; rimase in sottoveste di lino ed aspettò il carnefice. Quando costui venne, diede ordine ai suoi di consegnargli 25 monete d’oro, mentre i fratelli stesero di fronte a lui lenzuola e fazzoletti. Poi Cipriano si coprì gli occhi con le proprie mani, ma siccome non potè legarsi da solo, lo legarono i diaconi. Così soffrì il beato Cipriano. Il suo corpo, sottratto alla curiosità dei pagani, fu deposto nelle vicinanze e poi, tolto di notte, fu portato alla luce dei ceri e delle torce al cimitero di Macrobio Candidiano. Fu un corteo con preghiere e grande trionfo”.
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Questo epilogo così toccante e così aderente al concetto sfaccettato della carità paleocristiana, osservata dalla postazione privilegiata del martirio, inteso come sacrificio eccellente, come dono ed emulazione dell’eucarestia, ci suggerisce di riflettere, in seconda battuta, sul concetto, più largo, ma non meno interessante, della carità, considerata nell’interazione con l’idea, pure fondamentale, sin dal Cristianesimo della prima ora, della solidarietà. La concezione bipolare, che annoda la carità e la solidarietà, trova la sua manifestazione più concreta nella genesi dei primi cimiteri esclusivi e comunitari cristiani.
Allo scadere del II secolo, le comunità trovarono la forza e l’organizzazione per svincolarsi dalla consuetudine di seppellire i fedeli nella aree pagane, di cui, sino a questo momento, si erano servite. In questo frangente, muta completamente il concetto individuale delle sepolture e si solidifica quel “senso comunitario”, che guiderà l’ideologia cristiana dei primi secoli. Questo spirito nuovo spinge i fratres a creare delle vere e proprie “areae sepulturarum nostrarum”, come precisa autorevolmente Tertulliano, quando, in occasione di un contenzioso sorto tra i fratres christiani e la plebe pagana, quest’ultima gridava “areae non sint!”, nel senso che non si volevano concedere ai cristiani delle aree speciali, comuni e distinte dalle necropoli pagane. Negli stessi anni, nell’estremo scorcio del II secolo e agli esordi del seguente, anche i cristiani di Roma creano degli spazi funerari propri, talora gestiti dalla più alta gerarchia della Chiesa, come nel caso della cosiddetta “area prima” del complesso di S. Callisto, il cimitero voluto da papa Zefirino (199-217) e affidato alle cure dell’allora diacono e futuro papa Callisto (217-222). Anche in Oriente, il concetto di cimitero, inteso come “dormitorio comune”, inizia a diffondersi, secondo quanto specifica Giovanni Crisostomo, che definisce i cimiteri come un luogo di riposo provvisorio in attesa della resurrezione finale, e come conferma, per Alessandria, lo stesso Origine, che ricorda l’esistenza di grandi necropoli comunitarie attestate nel suburbio della città.
In tutto il mondo cristiano antico si sviluppa, dunque, il desiderio di creare delle aree cimiteriali comuni, se non altro per offrire a tutti i fratelli, anche ai meno abbienti, una degna sepoltura, coniugando quel binomio carità-solidarietà, con cui abbiamo avviato questo ragionamento. Per assolvere a queste esigenze, si creano, secondo la testimonianza di Tertulliano, delle “casse comuni” utili ad espletare tutte le pratiche delle tumulazioni, anche per tutti coloro che non potevano permetterselo. Tra gli obblighi sociali della comunità, infatti, secondo la Tradizione Apostolica, si annovera quello di occuparsi delle sepolture dei poveri, che non dovranno affrontare nessuna spesa, né per la chiusura delle tombe, né per la cura delle stesse.
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Ora che è stata disegnata la parabola relativa alla genesi e alla prima evoluzione dei cimiteri cristiani, guidata – come si è detto – dalle leggi inalienabili della carità e della solidarietà, occorre chiudere il cerchio e tentare di comprendere le dinamiche che si scatenano, a livello monumentale, all’interno dei complessi funerari, a cominciare dal momento apostolico, allorquando viene deposto, tra i defunti ordinari, un “corpo eccellente”, quello del martire.
La nostra attenzione non può non tornare alle origini e, segnatamente, nel suburbio romano, per controllare i primi interventi che i fratelli organizzarono attorno alle tombe dei principi degli apostoli. Si tratta di organismi semplici, degli pseudocibori, dei trofei a cui allude Eusebio di Cesarea, in un veloce passaggio dell’Historia Ecclesiastica quando rievoca la fortuita scoperta, in una biblioteca di Gerusalemme, di un prezioso documento che riporta, tra l’altro, un dialogo tra l’uomo di Chiesa Gaio ed un tal Proclo, che, a Roma, guidava la setta eretica dei montanisti. Per rispondere a Proclo, che vantava l’antichità e il prestigio del suo movimento, ricordando che, nella terra dei catafrigi e, segnatamente, a Ierapoli, era ancora possibile ammirare la tomba di Filippo -forse l’apostolo, forse il diacono – e delle sue quattro figlie, il presbitero romano Gaio porta l’attenzione dell’interlocutore sulle memorie apostoliche in questi termini essenziali, ma puntuali: “Ed io posso mostrare i trofei degli apostoli. Se, infatti, ti incamminerai per la via Regia, verso il Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa”.
Le parole di Eusebio trovarono una sorprendente corrispondenza con i risultati delle campagne di scavo effettuate, durante il secondo conflitto mondiale, nella necropoli vaticana. Come è noto, si rinvenne un’area aperta, definita “campo P”, con il celebre “muro rosso”, a cui si addossava un singolare organismo, costituito da due nicchie sovrapposte, distinte da una sorta di mensa sostenuta da due colonne. L’edicola, che fu creata simultaneamente al “muro rosso”, e, dunque, negli anni centrali del II secolo, come ha dimostrato lo scavo, segnalava la tomba terragna, dove, con tutta la probabilità, era stato sepolto Pietro. Senza entrare nelle tante questioni polemiche, che vertevano su una eventuale risepoltura del principe degli apostoli in un loculo ricavato nel muro G, dei due che furono creati per delimitare la “memoria petrina”, appare incontrovertibile l’attenzione, che si era posta per questa tomba occasionale, specialmente se guardiamo al palinsesto di graffiti ancora apprezzabile sulla parete esterna del muro G, che ci parlano di una prima forma di culto e di pellegrinaggio alla tomba santa.
Se consideriamo i graffiti dei pellegrini come “fossile guida” per l’archeologo e lo storico, che si pongono alla ricerca delle mete primitive, selezionate dai cristiani dei primi tempi, il pensiero corre ad un altro monumento romano della Roma paleocristiana, ovvero la memoria apostolorum, situata al III miglio della via Appia, in piena area catacombale, che, insieme ai sepolcri del Vaticano e dell’Ostiense, rappresenta il terzo polo della devozione per i principi degli apostoli, già attivo alla metà del III secolo.
Di questo monumento complesso e stratificato, ci interessa un singolare organismo, definito triclia dagli archeologi, che si propone come un cortile con scopi funerari e devozionali, come testimoniano gli innumerevoli graffiti, che rievocano i refrigeria, conservati in loro onore. Questi graffiti rivelano un pellegrinaggio largo e internazionale, che si muove dall’hinterland romano, per abbracciare tutto l’orbis, dall’Oriente all’Africa.
Presso le tombe dei primi martiri, dunque, sin dal III secolo, si innesca una forma di culto estremamente semplice, all’insegna di una serie di gesti rapidi e simbolici, come i refrigeria, ossia i banchetti consumati presso queste memorie e ricordati dai graffiti dei commensali. Questi banchetti si rivelano come pasti funebri, che rievocano situazioni di convito diverse, ma sempre riconducibili al concetto basico di una ritualità, che riunisce un’assemblea, una piccola comunità, un gruppo di fratelli per ricordare il dies natalis di un martire, ma anche di un defunto ordinario. La memoria della sinassi eucaristica, della moltiplicazione dei pani, della nozze di Cana, del banchetto celeste e, dunque, della condizione paradisiaca contribuisce a dar luogo ad un significato complesso e ricco di spunti semantici.
È sintomatico poter constatare come questi pasti funebri, così simbolici e così improntati alla concezione della convivialità, della solidarietà, della memoria comunitaria nei confronti dei fratelli scomparsi e dei defunti eccellenti, dei martiri, che rappresentano i punti di riferimento ineliminabili della comunità cristiana in formazione, si colleghino naturalmente ai fratelli, in nome della commemorazione.
I banchetti funebri, assumeranno, nel tempo, dimensioni ed aspetti importanti, in quanto legati alla generosità di alcuni evergeti ricchi e, spesso, ambiziosi, che desiderano rappresentare, con i conviti e con l’elemosina, il loro potenziale economico. Paolino di Nola ricorda il numero incredibile di indigenti che aveva partecipato al sontuoso convito organizzato dal nobile Pammachio nel 397, nella basilica di S. Pietro in Vaticano, in suffragio dell’anima di sua moglie. S. Agostino interverrà affinché questi conviti e queste forme di carità non degenerassero “in abundantia epularum et ebrietate”, affinché non si perdesse di vista il fine unico ed ultimo di queste manifestazioni, nate per onorare i martiri. Allo stesso problema allude Girolamo nelle lettere ad Eustochio, quando, con penna pungente, rievoca un episodio estremo capitato a Roma. Per sottolineare il fenomeno della “falsa carità” di alcune matrone straricche ammonisce: “Quando fanno elemosina suonano la tromba, quando invitano ad un agape assoldano un banditore. Ho visto da poco -non faccio nomi affinché tu non pensi ad una satira- una mobilissima donna romana, nella basilica di S. Pietro, preceduta da eunuchi, distribuire ad ogni passo una moneta con la propria mano, per essere stimata più pia. E allora -con la pratica si impara molto facilmente- una vecchia carica di anni e di stracci si fece avanti per ricevere un’altra moneta; quando si arrivò a lei, invece del denaro le venne dato un pugno”.
L’aneddoto, pur drammatizzato dall’enfasi del racconto, dà il senso di una prassi evoluta in termini estremi, ma che, all’origine, metteva in intimo contatto la convivialità, la solidarietà e la carità in nome del culto, della commemorazione, del ricordo affettuoso dei fratelli scomparsi e, specialmente, dei martiri.
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L’amore per questi fratelli eccezionali, il desiderio di contattarne i sepolcri, per acquisire la forza di emulare la loro testimonianza, in nome e nella prospettiva di quella carità, di quell’offerta incondizionata ed estrema della loro persona, di quel sacrificio, così simile a quello paradigmatico del Cristo. Questo insieme di tensioni guida la mentalità di chi desidera sistemare e organizzare il culto martiriale. Se guardiamo al panorama romano, ben presto e all’indomani dell’editto di tolleranza, si assiste all’azione di un piccolo entourage di personaggi scelti, di veri e propri evergeti, che vogliono rendere i loca sanctorum -per usare una felice espressione di Peter Brown- come siti “eleganti e privati”.
In questi primi momenti, il culto comportava riti e gesti sobri, essenziali . Tutto si consumava nel sano gesto dell’ex contactu, nella sistemazione di lumi e lucerne sulle mense predisposte nei pressi del sepolcro, secondo una venerazione rapida e urgente, forse perché questa forma di pellegrinaggio embrionale soffriva per l’aspetto multiplo della devozione, che disegnava nel suburbio romano una densa mappa agiografica, che induceva il pellegrino a consumare la sua tensione verso il culto martiriale piuttosto in quella “terapia della distanza”, che nella sosta dinanzi alle singole tombe.
Intanto, a cominciare dal tempo dei Costantinidi, la definizione topografica e architettonica dei loca sancta, si puntualizza con una serie di interventi suggeriti dall’amplificazione del fenomeno del pellegrinaggio, nel senso che, attorno alle tombe degli “uomini santi”, vengono costruiti recinti di rispetto e vengono innalzati santuari, talora anche all’interno degli spazi angusti della catacombe, dove si creano delle piccole basiliche ipogee, che permettono, spesso, di poter identificare quei sepolcri particolari per le celebrazioni. Succede, insomma, che il culto dei martiri e la sinassi eucaristica si consumino nello stesso spazio e trovino il sito significativo in un unico luogo.
Ma succede anche che -al tempo di Costantino- oltre a santuari di enorme impatto, dove il sepolcro rappresenta il fuoco liturgico dell’edificio di culto, a cominciare dall’Anastasis di Gerusalemme e continuando con i santuari romani dedicati ai principi degli apostoli; succede anche -si diceva- che sorgano delle singolari basiliche funerarie, leggermente defilate rispetto alla tomba del martire, ma sempre caratterizzate da una funzione memoriale, nel senso che questi edifici, detti circiformi, ricordando le figure dei martiri, sepolti nei pressi della basilica, assolvono ad un ruolo funerario. Questa intima congiunzione tra la tomba santa e i sepolcri ordinari innesca un meccanismo, forse ingenuo, ma eloquente per comprendere gli usi e le credenze funerarie paleocristiane. I cristiani vogliono essere sepolti vicino al martire e, per questo, nascono in catacomba e nelle altre aree sepolcrali i cosiddetti retrosanctos, ovvero una densissima concentrazione di sepolture ad sanctos, con l’intenzione di creare un intimo legame tra i defunti ordinari e i campioni della fede, secondo una prassi, che si attiverà -come vedremo- anche a livello iconografico.
La monumentalizzazione dei sepolcri si puntualizzerà durante il pontificato di papa Damaso (366-384), quando si innesca una ricerca sistematica delle tombe di coloro che erano stati sistemati con urgenza e senza particolari arredi nei cimiteri comunitari.
Il pontefice, assieme al calligrafo Furio Dionisio Filocalo, dopo aver individuato i “sepolcri eccellenti”, spesso con difficoltà, in quanto, in molti casi, se ne era dimenticata la memoria, come nel caso emblematico del martire Eutichio, sepolto nel complesso di S. Sebastiano, e di cui, con tutta probabilità, è stato individuato – in tempi recenti – l’area catacombale di pertinenza, da attenti ed accurati scavi archeologici; il pontefice – si diceva – si preoccupa di monumentalizzare sobriamente le tombe. Tali interventi comportano, innanzi tutto, la preparazione e la sistemazione di carmina epigrafici, che rievocano, in maniera succinta, le gesta dei martiri.
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Sino a questo momento, dunque, non nasce un immaginario iconografico vero e proprio, ma le fonti ci parlano di qualche eccezione. In questo senso, dobbiamo leggere alcuni brani degli inni di Prudenzio, che fanno rifermento rispettivamente al santuario di Ippolito sulla via Tiburtina e a quello di Cassiano ad Imola. Anche se i versi di Prudenzio possono rivelarsi carichi della drammatizzazione poetica, non possiamo e non dobbiamo escludere l’esistenza di piccoli cicli agiografici od anche di megalografie santorali perdute.
Al di là di questi documenti e di queste testimonianze indirette, restano anche delle tracce archeologiche e delle manifestazioni iconografiche rare, ma significative, relativamente all’esordio di un’arte martiriale. Mi riferisco innanzi tutto, ai resti della monumentalizzazione della tomba dei SS. Nereo ed Achilleo, nella basilica di Domitilla sulla via Ardeatina. Una colonna, pertinente ad uno pseudo-ciborio, che doveva coprire la tomba dei martiri, reca un rilievo, che rappresenta il momento finale dell’esecuzione di Achilleo, che procede, discinto, trascinato da un militare verso il patibolo. È interessante osservare come, alle spalle di questa scena drammatica – così rara in un repertorio rispettoso della legge dell’ottimismo, che attraversa tutta l’arte paleocristiana -; è interessante, dicevamo, intravedere un labarum, con il cristogramma costantiniano. Questo simbolo, che allude all’anastasis e alla resurrezione finale, serve ad attutire la componente violenta della situazione figurativa ed è altrettanto interessante poter constatare come questo signum salutis appaia anche al centro dei cd. sarcofagi di passione, che, nella seconda metà del IV secolo, alternano le scene dell’arresto e del giudizio del Cristo, la cattività di Pietro, la decollatio Pauli.
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Per il resto, l’iconografia martiriale, nota in età damasiana, sviluppata nel corso del IV secolo e diffusa dalla civiltà bizantina, comporta la genesi di una cultura figurativa proiettata verso l’atmosfera del trionfo finale. Per questo, i martiri più amati dai primi cristiani – da Agnese a Lorenzo, da Pietro a Paolo, da Pietro a Marcellino, da Ippolito a Sisto – compaiono nei cd. vetri dorati appartenuti ai cristiani ordinari e posti nella chiusura delle loro tombe, in segno di patronato e di protettorato.
Per questo, la martire Petronilla, accompagna in paradiso, con affetto e confidenza, la defunta Veneranda, in un affresco della seconda metà del IV secolo, nelle catacombe di Domitilla. Per questo i martiri delle catacombe sono rappresentati come icone, come poster, come manifesti della devozione lungo gli itinera ad sanctos, percorsi dai pellegrini dell’alto medio evo.
Tra i martiri e i defunti si stabilisce quella religio amicitiae, quel legame intimo inter pares, che qualifica i santi come patroni, intercessori, protettori e campioni della carità: essere vicino a loro, essere rappresentati in loro compagnia, significa rompere quel limite tra terra e cielo, che ispirerà, di lì a poco i grandi scenari musivi degli edifici di culto, come accade, alle soglie dell’età bizantina, nell’abside della basilica dei SS. Cosma e Damiano, laddove i santi medici sono accompagnati al cospetto del Cristo della parusia dai principi degli apostoli, che posano con confidenza e come per fare coraggio, la mano sulle spalle dei due “cristiani eccellenti”, aprendo un nuovo modo di pensare la santità e la carità e dando avvio ad un nuovo capitolo della storia dell’arte cristiana.

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One thought on “La Chiesa e la natura del cimitero

  1. Il concetto di uno spazio sacro, ossia di un luogo certo e delimitato dall’inviolabilità di un potere ultraterreno, è un concetto ancestrale dell’antropologia.

    I massicci complessi plebani, ispirati all’austero stile romanico, racchiudevano, dunque, una zona immateriale ed infinita, ma al tempo stesso percepibile dall’occhio umano perché articolata con sapienti geometrie su diversi livelli (cripta, piano medio e presbiterio) e capace di proiettare l’uomo dell’evo feudale verso le ineffabili realtà sovrannaturali del paradiso.

    Solo in quelle imponenti mura marmoree o di semplice pietra, spesso riccamente istoriate, infatti, si compiva l’unico e perfetto sacrificio che riconciliava il mondo a Dio Padre.

    Il tempio, oltre ad esser il principale luogo di preghiera, veniva vissuto come un vero portale d’accesso al cielo e tutti gli elementi architettonici, dunque, contribuivano a suscitare nei visitatori l’intensa emozione d’esser già partecipi del banchetto eucaristico nel Regno di Dio, dopo aver misteriosamente sciolto il vincolo terreno gravato dall’antica colpa che li separava dalla luce senza tramonto.

    La ritmica e serrata partizione, logica, quasi ossessiva, dei moduli costruttivi, come l’alternarsi tra archi traversi, capitelli, pilastri a polistilio e colonne; il sistematico convergere di tutte le linee prospettiche verso un punto di fuga idealmente collocato presso l’Altar Maggiore, assieme alle altezze sempre più vertiginose raggiunte della navata centrale, creavano, nel fedele, immerso in una visionaria penombra, un profondo senso d’estasi e rapimento che gli permettevano di pregustare la gioia dei beni eterni.

    Le chiese, poi, senza distinzione alcuna tra cattedrali o semplici oratori, presentavano sempre il gruppo absidale, ovvero quella zona semicircolare che, dietro al presbiterio, chiudeva le navate, orientato verso ponente, ad Est, mentre la zona riservata alle sepolture era il lato nord, la parte più buia del sagrato ove l’edificio sorgeva.

    Nella fiancata settentrionale si apriva, quasi sempre, una porticina, di ridotte dimensioni anche in altezza, non complanare al piano del pavimento, ma introdotta da un gradino di notevoli misure.

    Questo varco serviva per trasferire i feretri verso la sepoltura, nella zona attigua alla chiesa dove era stata scavata la fossa comune.

    Il becchino avrebbe provveduto a rimuovere dalla rozza cassa il cadavere che, avvolto solo nel lenzuolo, in cui era stato cucito con cura, sarebbe stato brutalmente gettato a marcire a fianco di altri corpi, coperto solo con una generosa quantità di calce, per allontanare predatori e malattie provocate dai miasmi.

    La salma sarebbe giaciuta lì, esposta alle intemperie, all’ingiuria dei peccatori o al caldo torrido, sino a quando gli affossatori non avessero chiuso con la terra benedetta la tomba ormai debordante d’ ignote membra umane, già guaste ed irriconoscibili.

    Nella profondità angosciante di quello scavo umido ed invaso da disgustosi insetti, ad cui si sprigionavano vapori venefici, la carne battezzata dei fedeli in Cristo avrebbe riposato per sempre, all’ombra della protezione materna che la chiesa offriva, sino al Giorno glorioso della Resurrezione.

    Nella complessa simbologia medioevale, quella soglia angusta, foriera di morte, era l’uscita destinata solo ai defunti, dopo la celebrazione delle esequie, e veniva interpretata secondo le parole di Gesù, riferite dall’evangelista Luca “Sforzatevi d’entrare per la porta stretta”.

    Il significato allegorico era evidente: quell’accesso, cui la fantasia e la superstizione popolare attribuivano nefasti poteri su quanti, ancora vivi, l’avessero attraversato, sintetizzava in una formula così facile ed ermetica la complessa ritualità del passaggio dalla vita terrena all’esperienza spirituale.

    Quel pertugio, dal lugubre significato, che si schiudeva come una breccia nella monotona continuità di possenti masse murarie rappresentava un transito obbligato verso una nuova dimensione dell’essere spirituale. “Ed ecco io faccio nuove tutte le cose” [S. Giovanni, Apocalisse]

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