Istituzione famigliare e diritto di sepolcro: centralità del regolamento municipale di polizia mortuaria

Secondo un illustre autore (Sereno Scolaro), l’esplicitazione dei familiari, aventi diritto alla tumulazione nel sepolcro familiare, dovrebbe essere demandata unicamente alla regolamentazione comunale, sempre che il fondatore del sepolcro non abbia indicato i parametri per decidere oggettivamente (o compiendo una cernita, in qualche misura anche di “soggettiva” specificazione?) quali siano i familiari aventi diritto.
In tal evenienza quest’ultima istruzione dovrà essere considerata prevalente, ma solamente *quando* e *se* non in contrasto con la Legge, poiché questa è sempre, per gerarchia, sovraordinata alla stessa lex sepulchri (la quale, nel merito, presenta profili para-contrattuali).
Meglio, tuttavia, “scolpire”, claris verbis, questo volere nel “regolare atto di concessione” ex art. 98 D.P.R. 285/90, quale condicio sine qua non perché un privato possa sfruttare, uti singuli, le utilitates dell’impianto cimiteriale, e, per quanto possibile, in armonia con le eventuali prescrizioni al riguardo contenute nel regolamento comunale di polizia mortuaria, cosicché la stessa P.A. sia a conoscenza, al momento del rilascio delle prescritte autorizzazioni alla sepoltura ex art. 102 D.P.R. 285/90, di quali saranno esattamente i familiari del fondatore aventi diritto.
Nel sepolcro familiare, inoltre, poiché il diritto compete essenzialmente alle persone famigliari del fondatore, si suppone possa rientrare anche il discendente adottivo, benché in questo frangente, il vincolo legale inerisca non al sangue, ma solo al nome.
Di questa opinione è il Bonilini, Diritto delle successioni, Bari 2004, p. 13.Sul punto, Trib. Lanciano 11 luglio 1985, in G. it., 1986, I, 2, c. 1, per un caso in cui è stato dichiarato il diritto al sepolcro della figlia adottiva della discendente del fondatore, non rilevando che quest’ultima fosse coniugata, in quanto ella sola aveva provveduto all’adozione.

Non assimilabile a questa specifica casistica, tuttavia, secondo autorevole dottrina (si veda D. Buson, I Servizi Demografici n.4/2005, Maggioli edizioni), sarebbe l’atto dell’adozione di persone maggiori di età da parte dei discendenti del concessionario, la cui procedura è, ad oggi, contenuta negli artt. 291 e seguenti del Cod. Civile.
In precedenza, tale istituto era, semplicemente, conosciuto come “adozione” (ma è ben vero che era ammessa anche quella “speciale” di cui alla L. 5 giugno 1967, n. 431, la quale avrebbe potuto, in presenza di una serie di presupposti, tra cui l’età, avere conseguenze “legittimanti”, anche se leggermente più attenuate, rispetto alla previsione dell’attuale art. 27 L. 4 maggio 1983, n. 184 e succ. modif.), tanto che l’adozione di cui agli artt. 291 e segg. Cod. Civile era, seppure impropriamente, classificata anche come ordinaria”.
Per tale adozione, così come per i cosiddetti casi particolari, non si segue il disposto dell’art. 28 L. 4 maggio 1983, n. 184 e succ. modif. Se muoviamo da questa incontrovertibile constatazione ai sensi dell’art. 300 comma 2, Cod. Civile l’adozione non indurrebbe, ex post ed a ritroso, alcun rapporto civile tra l’adottato ed i parenti dell’adottante, di conseguenza non s’instaurerebbe nessuna parentela con l’originario fondatore la quale è, poi, l’ovvia e naturale premessa perché il figlio adottivo possa disporre o fruire del sepolcro…a tempo debito.
Nel sepolcro familiare lo jus sepulchri, di conseguenza, si trasmette ordinariamente alla rosa dei familiari annoverati e (meglio se nominativamente, enumerati, per evitare endogeni e… sgraziati contenziosi sepolcrali) come destinatari (o… dedicatari?), della costruzione cimiteriale stessa, dalla lex sepulchri ( atto di ordinazione solennemente statuito con la stipula del contratto concessorio), altrimenti di default opererebbe l’art. 93 comma 1 I Periodo D.P.R. 285/90, con implicito rinvio alla normazione civilistica, sui cui effetti dirimenti si veda infra. Esso è acquistato dal singolo ex capite e jure proprio sin dal momento della nascita, in ragione del proprio D.N.A., ossia per il solo fatto di trovarsi con il fondatore in quel determinato rapporto di parentela o discendenza, riconosciuto dalla Legge, contemplato nell’atto di fondazione, o desunto dalle regole comunali o di uso comune.

Il vigente Cod. Civile dedica alla famiglia il suo primo libro intitolato, appunto “Delle persone e della famiglia”.
La maggior parte degli artt., di cui esso consta, mostra – oggi – un contenuto abissalmente diverso da quello che aveva nel testo originario del 1942, ossia ante la riforma epocale, rubricata come L. 19 maggio 1975 n. 151. Il diritto di famiglia codificato nel 1942, in piena epoca fascista, seppur già in crisi di consenso e minata dall’imminente e disastrosa sconfitta bellica, teorizzava una famiglia costruita sulla subordinazione della moglie al marito, sia nei rapporti personali sia in quelli patrimoniali, nelle relazioni di coppia e nei riguardi dei figli, essa era fondata sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio (figli naturali), che ricevevano un trattamento giuridico deteriore rispetto ai figli legittimi.
Ora, per inciso, questa stortura profondamente discriminatoria è stata completamente sanata solo con la recente L. n. 219/2012, cui è seguito il D.Lgs. n. 154/2013 di implementazione.
Il primo libro dell’attuale Cod. Civile venne, dunque, fortemente novellato dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, che apportò sostanziali modifiche tese ad uniformare le pre-esistenti norme civilistiche ai sublimi princìpi costituzionali sanciti dalla Suprema Carta del 1948.
Il D.P.R. 285/90, atto regolamentare ancora (o…residualmente?) precipuo ed essenziale, nell’architettura normativa del nostro ormai disarticolato sistema funerario italiano, soprattutto quando si ragioni di diritti sociali e civili, come appunto lo jus sepulchri, soggetti alla sola Legge Statale ex art. 117 comma 2 lett. m) Cost. (e ciò ci salva dall’indebita ingerenza di leggi e leggine regionali, spesso mal redatte e pretenziose!) non struttura nello jus positum, una volta per tutte, ed in modo uniforme il concetto di “famiglia” del concessionario, ai fini dell’attribuzione dello jus sepulchri, lasciando che questa accezione sia fornita dal regolamento comunale di polizia mortuaria, così i Comuni potranno impiegare questa flessibilità normativa come duttile strumento di conduzione del camposanto, per rispondere alle mutevoli e nuove esigenze locali.

Qui, emerge l’esigenza ineludibile di fare sempre riferimento al regolamento municipale di polizia mortuaria, anche nella malaugurata ipotesi di una politica cimiteriale “del vago e dell’indefinito” (e se esso dovesse esser silente?).
Quest’ultimo, infatti, costituisce – a monte – la fonte sostanziale e centrale, in tutti i procedimenti, di polizia mortuaria, aventi rilevanza esterna, e capaci di incidere sulla posizione soggettiva del privato cittadino, anche per “legalizzare”, allo scopo della gestione funeraria, ogni formale designazione di “famiglia” del concessionario; cioè per l’individuazione delle persone le quali, prima o poi, in base all’inesorabile cronologia degli eventi luttuosi (se non diversamente concordato tra tutti gli aventi titolo, con atto inter-privatistico, quale regolamento su cosa comune ex art. 1106 Cod. Civile, da notificare, comunque, per conoscenza, all’amministrazione cittadina) avranno il diritto a venire sepolte nella concessione della specifica sepoltura privata.
Anche l’iper-regolamentazione, intrusiva e capillare sconta, però, a volte, la sua inadeguatezza nell’intelligere, in modo omnicomprensivo, tutte le molteplici sfaccettature psicologiche ed i passaggi di piano antropologici e culturali, del fenomeno funerario italiano, laddove umbratili affetti, deliquescenti emozioni di pìetas e sentimenti di dolore personale debbono, per sempre, per quanto timidamente, tradursi in asettica norma concreta e, quindi, freddamente giuridicizzarsi; ma pure il diritto funerario, con le sue somme vette di astrazione lirica, quale ogni altro prodotto dell’umana coscienza, è pur sempre perfettibile, in quanto, per sua intima ed erronea essenza, massimamente defettibile.
In effetti, il tentativo — talvolta compiuto, ai fini della titolarità dello jus sepulchri — di riportare il senso della famiglia a rigidi riferimenti legislativi e non alla mera consuetudine, sembra tradire la difficoltà di cogliere, da un lato, lo spazio configurato dall’ordinamento per la stessa fonte consuetudinaria (art. 1, – Pre-Leggi – disposizioni sulla legge in generale), e, dall’altro, i diversi raggi d’azione creati per la famiglia (istituzione di volta in volta allargata o ristretta, ma sempre fondata sul matrimonio), che il legislatore prospetta per dispiegare i suoi propositi di buon governo (si pensi alla nozione di famiglia nucleare — a cui si riferiscono l’art. 29 Cost. e gli artt. 159 e ss. Cod. Civile — e a quella di famiglia fino al sesto grado di parentela, ai fini della successione legittima — art. 565 ss., e, in particolare, 572 Cod. Civile —; oppure alla spiegazione di famiglia, nell’impresa familiare, limitata al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo — art. 230 bis, comma 3, Cod. Civile.).
In questo caleidoscopio (ordinato e coerente con le norme costituzionali) di perimetri legislativi entro cui individuare i destinatari delle diverse disposizioni sulla famiglia, ben può inserirsi quello creato dalla consuetudine per il diritto di sepolcro.

In ciò soccorre anche la stessa definizione costituzionale della famiglia, quale società naturale, i cui diritti vengono non posti ex novo, ma semplicemente riconosciuti dallo Stato, il quale prende atto dell’originaria e pre-giuridica ricchezza spirituale insita nel consorzio familiare e nel suo assetto primigenio e «[…] si impegna a rispettare l’autonomia di ogni singola famiglia »(art. 29 Cost.).
Circa la nozione di famiglia del fondatore, a conclusioni analoghe a quelle tratte, seguendo la tradizione consuetudinaria, giunge chi opta per il rinvio alla norma scritta sul diritto di uso (artt. 1021 e 1023 Cod. Civile), arrivando, in forza di questo procedimento analogico, a individuare come familiari titolari del diritto primario di sepolcro il coniuge, i discendenti e gli ascendenti in linea retta del concessionario fondatore, con esclusione di qualsiasi altro soggetto, seppure parente o, a fortiori, semplice erede.
Data la (voluta?) indeterminatezza della previsione normativa statale (decidere di non decidere può esser una somma decisione…un po’ machiavellica, forse!!!) è, allora, in ultima istanza, il regolamento di polizia mortuaria comunale a dover contestualizzare il significato teorico di famiglia (in senso stretto o dilatato) in una particolare realtà sociale (si pensi alla famiglia patriarcale tipica dell’Italia contadina e rurale sino al secondo dopoguerra o alla famiglia mononucleare diffusasi con la forte conurbazione propria della società industriale del XX secolo).
In assenza, varrebbero, comunque, per il noto postulato dell’horror vacui giuridico, le sullodate norme del I libro Cod. Civile. L’amministrazione comunale ha tutta la convenienza a facilitare l’uso di tombe già esistenti, per massimizzare la capacità ricettiva cimiteriale.
Pertanto, può ampliare l’utilizzo dei sacelli gentilizi (altrimenti ristretto alla sola famiglia… come si ricava agevolmente dall’aggettivazione), attraverso l’istituto della benemerenza (da svilupparsi e distendersi, comunque in modo selettivo e puntuale, per evitare possibili abusi, con maglie più o meno larghe e sempre nel rispetto del divieto che vi sia il fine di lucro e speculazione di cui all’art. 92 comma 4 D.P.R. 285/90, ai sensi dell’art. 93 comma 2 del D.P.R. citato).
In tale occasione v’è proprio riserva di regolamento comunale, ed è una delle rarefatte situazioni in cui il D.P.R. 285/90 rinvia, apertis verbis, alla potestà normativa municipale in tema di polizia mortuaria (Artt. 344 e 345 T.U.LL.SS), in difetto della quale l’istituto delle benemerenze non sarebbe minimamente attuabile, se non come enunciazione assiomatica, poi da declinare fattivamente nel locale regolamento dei servizi funerari. Il Comune, quindi, può concedere al concessionario la facoltà di tumulazione di persone terze.

Parte della dottrina è di questa idea: solo il concessionario primo, cioè il fondatore del sepolcro sibi familiaeque suae (per sé e per la propria famiglia) potrebbe “derogare” alla familiarità dello stesso, permettendone l’accesso alle spoglie mortali di soggetti esterni rispetto al nucleo famigliare, altri studiosi della materia funeraria, invece sono più possibilisti e tendono a mitigare l’intransigenza della norma; tuttavia, siccome il diritto di sepolcro s’atteggia come mera aspettativa, per cui l’ordine di sepoltura, nelle nicchie di una tomba di cui si è contitolari, è scandito (salvo patti contrari di cui rendere edotta l’Amministrazione comunale), in relazione all’ordine temporale di morte, servirebbe, comunque, il consenso unanime di tutti i titolari di quote della sepoltura stessa affinché si addivenisse – legalmente – ad una compressione del loro jus sepulchri già maturato.
Se ottemperiamo a questo schema, la benemerenza, quindi, presupporrebbe una tripla autorizzazione, rendendo molto difficile l’effettivo esercizio di questa facoltà, diverrebbero, infatti indispensabili questi preliminari documenti:
1) L’autorizzazione del concessionario (ed essa deve superare un primo vaglio di legittimità ex art. 102 D.P.R. n.285/90), rectius: il locale ufficio della polizia mortuaria deve attentamente verificare il titolo di accoglimento nel sepolcro).
2) L’autorizzazione di tutti gli aventi titolo ad esser accolti, jure sanguinis o jure coniugii, in quella determinata tomba (il moltiplicarsi esponenziale degli aventi titolo a pronunciarsi, magari a causa di ripetuti subentri, acuisce ed esulcera sempre la conflittualità).
3) L’autorizzazione di chi può (o… deve?) anche ai sensi dell’Art. 1 comma 7-bis Legge 28 febbraio 2001 n. 26, occuparsi delle esequie del de cuius in quanto titolato in base al diritto di consanguineità enucleato dall’Art. 79 comma 1 II Periodo D.P.R. n.285/90, ed in questo modo rinuncia al proprio potere di disposizione sul defunto stesso. La benemerenza, infatti, si configurerebbe, pur sempre, come un gesto di liberalità da parte di persona non legalmente obbligata.

Written by:

Carlo Ballotta

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